“Non dobbiamo cadere nella trappola dei paragoni storici: non c’è una gerarchia degli orrori. Il genocidio purtroppo è accaduto con la Shoah, poi in Ruanda e in Bosnia Erzegovina nel 1995. È in corso anche a Gaza e dobbiamo fare tutto il possibile per fermarlo”. Micaela Frulli, allieva del giudice Antonio Cassese, è docente all’Università di Firenze dove insegna Diritto internazionale. Ha fatto parte della carovana solidale di parlamentari, eurodeputati, operatori umanitari e giornalisti, organizzata da Aoi, Arci e Assopace Palestina, che a metà maggio ha raggiunto valico di Rafah, per chiedere il cessate il fuoco e la distribuzione degli aiuti. In quella occasione la giurista si è soffermata sul dibattito linguistico su cui da tempo dibattono opinionisti e analisti italiani. E ha spiegato perché ritiene corretto utilizzare il termine genocidio per quello che sta accadendo alla popolazione palestinese a Gaza. Secondo Frulli non è una questione di opinione politica o di principio. “Noi abbiamo uno strumento che ci dà una definizione di genocidio estremamente precisa – spiega – Si tratta della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio adottata nel 1948″. Il trattato internazionale entrò in vigore nel 1951 e oggi è ratificato da 149 paesi, tra i quali l’Italia che con una legge dell’anno successivo si è impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione. “La Convenzione, modellata sugli eventi della Shoah voleva essere uno strumento che ci aiutava a guardare al futuro, a prevenire altri atti del genere e quindi prevedeva la possibilità che un genocidio si potesse verificare in circostanze del tutto diverse da quelle che occorsero durante la Seconda guerra mondiale“. Per questo “non bisogna fare paragoni storici”. Qui “non si tratta di opportunità politica. Questo strumento pone agli stati l’obbligo di prevenire gli atti di genocidio. Definire questi atti come genocidio è molto importante perché fa scattare la possibilità di applicare gli strumenti giuridici a nostra disposizione.”
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