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È tornato Il Gorilla Quadrumàno, mezzo secolo dopo

Nasce da un'esperienza teatrale assolutamente originale all'interno dell'università (il Dams di Bologna), raccontata in forma di scrittura collettiva
È tornato Il Gorilla Quadrumàno, mezzo secolo dopo
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Quella che ho fra le mani è la riedizione, a mezzo secolo esatto dalla prima uscita, di un libro di teatro decisamente anomalo.

In effetti Il Gorilla Quadrumàno. Il teatro come ricerca delle nostre radici profonde, con un’introduzione di Giuliano Scabia, a cura di Angela Borghesi e Massimo Marino (Quodlibet, 2025), anomalo lo è doppiamente. Perché nasce da un’esperienza teatrale assolutamente originale all’interno dell’università (il Dams di Bologna) e perché sceglie di raccontarla in forma di scrittura collettiva. Furono gli stessi studenti del Gruppo di Drammaturgia 2 a comporlo sotto la guida del loro professore: il poeta e drammaturgo Giuliano Scabia (1935-2021), docente a Bologna dal 1972 al 2005, di cui ci siamo già occupati più volte.
Tutto nasce dal ritrovamento, da parte dello studente Remo Melloni, di alcuni copioni che venivano rappresentati nelle stalle dei paesi dell’Alto Appennino Reggiano ancora nei primi decenni del secolo scorso.

Scabia decide insieme al gruppo di dedicare un seminario al “teatro stalla”, che poi cresce e, fuoriuscendo dalle aule universitarie, diventa progetto di messa in scena di uno dei copioni, Il Gorilla Quadrumàno. Una vera e propria fiaba, che ha per protagonista un “uomo selvatico” col nome del titolo, uno dei tanti avatar della “maschera del selvaggio”, diffusa in tutto il folklore europeo e nel teatro popolare.

“Abbiamo cercato di fare teatro e fare scuola integralmente e organicamente, a tempo pieno”. In queste parole di Scabia risuona un’idea di insegnamento molto diversa da quella dominante allora (e purtroppo ancora oggi). E’ evidente l’influenza della nuova pedagogia, di Don Milani e, in particolare, del Movimento di Cooperazione Educativa con cui egli (per otto anni insegnante alla scuola milanese del Convitto Rinascita) era stato in contatto a lungo. Non va dimenticato che a quell’epoca, Scabia era già diventato uno dei capifila della cosiddetta “animazione teatrale”, fatta con ragazzi e anche con adulti, che per altro egli ha sempre preferito chiamare “teatro a partecipazione”.

Ma, per cogliere appieno il senso di questa esperienza dal punto di vista teatrale, occorre allargare lo sguardo a ciò che stava avvenendo in quegli anni nel nuovo teatro, di cui il poeta padovano aveva segnato alcuni momenti significativi, con l’andata in scena del suo primo testo teatrale, Zip, alla Biennale di Venezia del 1965, e con la collaborazione alla stesura del manifesto convocatorio del Convegno di Ivrea sul nuovo teatro del giugno 1967.

Dopo i rivolgimenti sessantotteschi, tira aria di crisi e di ripensamenti. Si sente soprattutto il bisogno di fuggire dal “centro”, di andare in cerca di nuovi spettatori, di dilatare l’azione teatrale portandola fuori dai luoghi deputati, di aprire alla partecipazione superando la rigida divisione di ruoli.

Mentre Carmelo Bene smette per cinque anni di fare spettacoli, dedicandosi al suo cinema, Leo de Berardinis e Perla Peragallo si autoesiliano a Marigliano, nell’entroterra napoletano, all’insegna di un “teatro dell’ignoranza” fatto a contatto con il sottoproletariato e i detriti della cultura popolare.

Intanto il regista polacco Jerzy Grotowski, dopo aver smesso definitivamente con la regia, vara dei progetti parateatrali nel nome della “cultura attiva” e dell’”incontro”. Ed è una coincidenza che dà da pensare il fatto che più o meno negli stessi mesi del 1974 in cui Scabia lavora con i suoi studenti ai copioni “di stalla”, fra l’altro visitando i luoghi dove un tempo venivano rappresentati, l’Odin Teatret di Eugenio Barba decida di soggiornare a lungo in Salento, terra d’origine del regista, incontrando teatralmente, ma senza spettacoli confezionati, le comunità della regione e “barattando” con loro.

Per completare brevemente il quadro, va infine ricordato che in quegli anni, grazie ad alcuni linguisti, storici e antropologi, si era in piena rivalutazione dei dialetti (a lungo penalizzati dalla scuola e dalla cultura ufficiale) e delle tradizioni popolari, fra l’altro sviluppando una preziosa indicazione gramsciana.

Tutto questo lo ritroviamo sfogliando le pagine del libro, fin dal sottotitolo. Ma va riconosciuto che Scabia e i suoi si tengono ben lontani da ogni tentazione di folkrevival o di mitizzazione acritica del mondo contadino da cui quei copioni provenivano: “Il Gorilla Quadrumàno […] non va scambiato per una ricerca etnologica, né per un manifesto di rilancio della cultura subalterna”.
E se inizialmente il gruppo aveva preso in considerazione la possibilità di “restare assolutamente fedeli a quel teatro”, l’ipotesi venne subito scartata a favore di un rapporto molto più libero, che trovò infine la sua chiave nel gioco e nell’improvvisazione.

Il gorilla quadrumano, Edizione 1974
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