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Nel mirino del decreto Sicurezza c’è la repressione del dissenso: un piano autoritario che va fermato

L’impianto di questo decreto è il rovesciamento totale del senso stesso dello Stato
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Infine, il Ddl Sicurezza è diventato decreto, aggirando il Parlamento e il Quirinale. Una metamorfosi necessaria per sottrarsi al confronto delle Camere, ma anche per non cedere sulle misure di pura disumanità nel mirino del Presidente della Repubblica, a partire dal divieto di acquistare Sim per i migranti irregolari e dal carcere per le donne incinte o madri di bimbi piccoli.

Per loro, nessun ripristino della norma che evita la custodia cautelare: la detenzione preventiva, ora prevista obbligatoriamente negli Icam (istituti a custodia attenuata per le madri), significa comunque carcere. Nessun accesso alle misure alternative previste dalla legge, negato il diritto delle donne a partorire libere e dei bambini a nascere liberi. Un intento unicamente punitivo, che colpirà soprattutto le donne più vulnerabili.

E quanto è punitivo e privo di alcun senso negare a un migrante, già sradicato, di possedere un telefono cellulare con cui contattare la propria famiglia? Vero, nel decreto non è più necessario il permesso di soggiorno, basta un documento di identità, ma sappiamo quanti sbarcano sprovvisti di qualsiasi pezzo di carta.

Ma che cosa c’è, soprattutto, nel mirino di questo decreto? Quale spinta lo anima nel profondo?

Per noi la risposta è chiara: la repressione del dissenso e la contrazione degli spazi di democrazia. Sì, perché il messaggio più forte è all’indirizzo delle opposizioni, dei movimenti, delle voci critiche, delle proteste di piazza: non osate.

Il Quirinale aveva posto sotto la sua lente l’articolo 19 del Ddl Sicurezza, il cosiddetto “Pro-Tav” o “Pro-Ponte”, che modificava alcuni articoli del codice penale in materia di violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale, nel caso in cui agite per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. Ma il decreto-legge non rappresenta un ravvedimento: sebbene non contenga quella “neutralizzazione” di fatto delle attenuanti rispetto alle aggravanti, che era nel Ddl, aumenta ora la pena della metà, anziché di un terzo. E sostituisce esplicitamente il riferimento a “opere pubbliche” e “infrastrutture strategiche” con “infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”.

E poi c’è un’altra missione capitale, esplicitata dalla presidente Meloni stessa per giustificare la fretta nel decretare: assicurare uomini e donne in divisa “le tutele che meritano”.

E così arriva la tutela legale a carico dello Stato per gli agenti, fino all’importo massimo di 10mila euro per ogni fase del procedimento penale, ma secondo i sindacati di polizia non è uno “scudo”. Sarà, eppure coloro che dello Stato sono i primi servitori non dovrebbero essere posti sotto la sua lente severa chiedendo i codici identificativi su ogni casco o divisa? Non dovrebbe lo Stato vivere come ancor più odiosi quei reati perpetuati nel suo nome, quasi sempre abusando del potere da esso concesso?

Ma l’impianto di questo decreto è il rovesciamento totale del senso stesso dello Stato, nella forma della Repubblica, il cui scopo primario certo non è sciogliere il potere da ogni vincolo di legge (quella si chiama tirannide), ma “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, come scritto nella nostra Costituzione.

Abbiamo meno di 60 giorni. Di fronte a un attacco così radicale non basterà certo l’opposizione parlamentare che contro i decreti non ha barricate legali. Ecco perché è fondamentale partecipare alla manifestazione nazionale indetta dai movimenti per il 31 maggio. Perché, come dicono loro, non siamo alla fine, ma solo all’inizio. “Se loro scrivono i decreti, noi scriveremo un’altra storia”. E per fermare questo piano autoritario servono le aule, ma soprattutto le piazze, nei territori, la lotta quotidiana.

Serve che le opposizioni unite portino al voto l’8 e il 9 giugno quante più persone possibile per abrogare norme che consentono sfruttamento sul lavoro e discriminazioni ai danni dei residenti stranieri. Contro un governo tutto armi e repressione, piazze per dire no, urne per dire 5 sì.

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