Economia

Il think tank conservatore: “Sbagliata la formula per calcolare i dazi reciproci, sono gonfiati di quattro volte”

L'American Enterprise Institute, che in passato ha avuto stretti legami con l'amministrazione di George W. Bush jr, chiede alla Casa Bianca di correggere il tiro. Le tariffe scenderebbero a un massimo del 14%. Per la Ue 10%

“La formula su cui si è basata l’amministrazione non ha fondamento né nella teoria economica né nel diritto commerciale”. Ed è pure viziata da “un errore che gonfia di quattro volte le tariffe che si presume siano imposte dai paesi stranieri”. Uno dei think tank conservatori più noti degli Stati Uniti, quell’American Enterprise Institute che in passato ha avuto stretti legami con l’amministrazione di George W. Bush jr, boccia senza appello i calcoli fatti dalla Casa Bianca per stabilire i dazi reciproci annunciati il 2 aprile da Donald Trump. La richiesta di fare marcia indietro è stata condivisa, tra gli altri, anche dal miliardario degli hedge fund Bill Ackman, fondatore e ad di Pershing Square Capital Management e grande finanziatore di Trump: su X ha criticato duramente i consiglieri del presidente sollecitandoli a “riconoscere l’errore prima del 9 aprile (quando i dazi entreranno in vigore ndr) e correggano la rotta prima che il presidente faccia un grosso errore per colpa di calcoli matematici sbagliati”.

Il presidente come è noto ha sostenuto che l’aliquota della tariffa imposta ad ogni Paese o area economica è stata ottenuta dimezzando il totale delle barriere tariffarie e non tariffarie applicate dallo stesso Paese sulle merci Usa. In realtà, la formula utilizzata si limita a dividere il deficit commerciale degli Stati Uniti verso ogni Stato per le importazioni statunitensi da quello Stato, rapporto che dovrebbe sintetizzare l’effetto delle misure protezionistiche adottate dagli altri Paesi a danno delle aziende a stelle e strisce. Imporre quella tariffa consentirebbe, nella logica dei consiglieri della Casa Bianca, di azzerare il surplus ottenuto con quelle presunte pratiche scorrette. Il dato ottenuto in base a quell’assunto è stato poi diviso per due perché Trump ha detto di voler essere “indulgente”.

Ma la formula partorita dall’Ufficio dei consiglieri economici del presidente e resa pubblica dall’Office of the United States Trade Representative, scrivono Kevin Corinth e Stan Veuger, “non ha senso dal punto di vista economico” e in più è stata applicata compiendo “un errore che gonfia di quattro volte le tariffe che si presume siano imposte dai paesi stranieri”. Infatti al denominatore compaiono, moltiplicati per il valore delle importazioni, la cosiddetta elasticità dell’import al prezzo (ε) e quella dei prezzi rispetto ai dazi (φ). In teoria serve per tener conto del fatto che, dopo le tariffe, la variazione del deficit commerciale dipenderà da quanto i prezzi dell’import saliranno e quanto, di conseguenza, i consumatori verranno scoraggiati dall’acquisto.

Il problema è che l’amministrazione Trump ha ipotizzato che l’elasticità della domanda di importazioni rispetto ai prezzi sia pari a 4 e l’elasticità dei prezzi alle tariffe sia un bassissimo 0,25: moltiplicandole, il risultato è pari a 1 per cui si annullano. In realtà le tariffe influenzano i prezzi all’import ben di più, notano il vicedirettore del Centro sulle opportunità e la mobilità sociale dell’Aei e il senior fellow del think tank. Non a caso uno degli autori dello studio citato dall’USTR, Alberto Cavallo, su X ha subito fatto notare che quell’elasticità è vicina a 1. Chi ha scritto la formula ha considerato – volutamente? – un altro valore, l’elasticità dei prezzi al dettaglio, che è più bassa.

Risultato: “Correggere l’errore ridurrebbe le tariffe che si presume vengano applicate da ogni paese agli Stati Uniti a circa un quarto del loro livello dichiarato e, di conseguenza, taglierebbe le tariffe annunciate dal presidente Trump”. I dazi non supererebbero il 14% per nessun Paese e per quasi tutti – così come per l’Unione europea – si fermerebbero al 10%, il limite minimo voluto da Trump. Il Vietnam, colpito da un pesantissimo dazio del 46%, lo vedrebbe calare al 12,2, la Cambogia dal 49 al 13%, la Cina dal 34 al 10%.

“Ora, il nostro punto di vista è che la formula su cui si è basata l’amministrazione non ha fondamento né nella teoria economica né nel diritto commerciale”, chiosano i ricercatori. “Ma se vogliamo fingere che sia una solida base per la politica commerciale degli Stati Uniti, dovremmo almeno essere autorizzati ad aspettarci che i funzionari della Casa Bianca facciano i loro calcoli con attenzione. Speriamo che correggano presto il loro errore: la liberalizzazione commerciale che ne risulterebbe fornirebbe una spinta all’economia e potrebbe ancora aiutarci a scongiurare una recessione“.