di Samuela Cittadini
Quattro soldatesse israeliane sono state rilasciate da Hamas; non si può vederne le condizioni perché al loro arrivo in Israele sono state oscurate da una sorta di tunnel (per una questione di privacy, dicono, e forse anche per non fare vedere al mondo come stanno, bene? Male?). Dal canto loro, quelli di Hamas che, con questa guerra atroce, dovevano essere stati decimati, festeggiano apertamente (e sembrano tantissimi) il ritorno di 200 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. A dimostrazione del fatto che Hamas è una fenice che rinasce e rinascerà continuamente dalle proprie ceneri.
A me questa tregua fa paura, per diverse ragioni: perché non credo che durerà, e se durerà non cambierà lo stato delle cose.
A mio modo di vedere i Palestinesi hanno troppi nemici da cui difendersi e nessuna risorsa. Devono difendersi da Hamas che non ha fatto altro che strumentalizzarli fregandosene delle loro vite, devono difendersi dal governo israeliano, dai suoi bombardamenti a tappeto, dai suoi droni precisissimi e dalle sue mire espansionistiche, devono difendersi dall’idea che l’Autorità Nazionale Palestinese possa un giorno sostituirsi ad Hamas, visto che non è stata neppure in grado di difendere la Cisgiordania dalle ruberie e dalle violenze quotidiane dei coloni israeliani e in ultimo, ma non ultimo in ordine d’importanza, devono difendersi da noi, dall’occidente, dagli indifferenti.
Rischi analoghi, in modi diversi, subisce il popolo israeliano, ostaggio di un estremismo sionista che non gli farà mai trovare pace, né in terra d’Israele né nel mondo. Troppo spesso ci è capitato di vedere come pure nelle manifestazioni pro Palestina per il cessate il fuoco si siano infiltrati soggetti che ne hanno approfittato per sfogare il proprio odioso antisemitismo, in molti mai morto.
Siamo lontani da una soluzione, troppa disparità di forze fra questi due popoli fratelli e una terra sola. È utopia di sicuro ma solo quell’utopia potrà salvare entrambi, un risveglio della coscienza civile mondiale che si ponga come scudo umano alle vendette dell’una e dell’altra parte, un diritto d’intervento politico da parte dell’Onu per proteggere, per mediare e pacificare, per permettere che si possa ricominciare da zero e scoprire che convivere non è solo possibile ma necessario.
Gaza oggi è terra devastata, terra di macerie. Hanno calcolato che ci vorranno 14 anni per portarle via. E tanto, tanto tempo ancora per ricostruirla. Che ne sarà nel frattempo delle migliaia di persone innocenti che sono riuscite a sopravvivere ma che non hanno più né casa, né cibo, né acqua, né medicine, né ospedali per curarsi? Che ne sarà d’Israele, della gente che deve continuare a vivere circondata da mura alte 25 metri – costruite per proteggerla ma che di fatto l’hanno rinchiusa in un carcere a cielo aperto – e camminare per le sue strade, vivere e lavorare con la costante paura che qualche terrorista attenti alla sua vita?
È vita questa, al qua e al di là delle barricate? È questo davvero l’unico futuro possibile? È questa la nostra idea di umanità?
La data del 27 gennaio incombe su di noi con il ricordo della Shoah, e forse è arrivato il momento di rinnovare con la memoria anche la promessa che ciò non accada mai più a nessuno, in nessuna parte della terra. Ed è una promessa che deve arrivare dalla politica mondiale che nella guerra a Gaza (salvo prestigiose eccezioni) è restata per lo più silente, quando non ha fornito aiuto diretto a Israele attraverso la fornitura di armi. Il mondo dell’informazione poi (anche qui salvo rare eccezioni) dovrà fare i conti prima o poi con la responsabilità di aver raccontato spesso una realtà distorta, incompleta, di aver manipolato le idee, di aver preso posizione accanto al potere costituito dimenticando il suo primo dovere, che è e resta quello di raccontare per prima cosa i fatti.
Già, sarebbe bello svegliarsi di colpo in un mondo così. Ma sappiamo tutti benissimo che nulla di tutto questo accadrà mai davvero.