Lo stato deve restituire a Tim un miliardo di euro. La decisione della Corte d’Appello immediatamente esecutiva

La Corte d’Appello di Roma ha deciso che lo Stato dovrà restituire al gruppo Tim un miliardo di euro. È stato rigettato il ricorso presentato dalla presidenza del Consiglio in cui si chiedeva la sospensiva della restituzione disposta in appello. Si tratta del canone concessorio preteso per il 1998, l’anno successivo alla liberalizzazione del settore. La somma dovuta è pari al canone originario, di poco superiore a 500 milioni di euro, più la rivalutazione e gli interessi maturati, per un totale pari appunto a circa 1 miliardo. Il contenzioso dura da 15 anni.
La sentenza è immediatamente esecutiva e Tim ha annunciato che avvierà da subito le procedure per il recupero dell’importo in questione. Dopo la notizia il titolo della società è balzato in borsa, dove ora guadagna l’1,7%.
Per i giudici della Corte d’appello di Roma lo Stato ha la liquidità necessaria per pagare. Il ricorso si fondava sul presupposto del “grave e irreparabile danno” per la concessione della sospensiva e sull’assunto che “la dimensione della somma portata dalla sentenza rende evidente l’impossibilità per il bilancio dello Stato di reperire la liquidità necessaria ad un ipotetico pagamento integrale ed immediato, rendendosi necessario, a questo fine, inevitabilmente apportare modifiche alle previsioni di cassa stabilite dalla vigente legge di bilancio attraverso uno specifico intervento legislativo”. La seconda sezione penale specializzata in materia di impresa. presieduta dal giudice Benedetta Thellung de Courtelary, non rileva invece nessun pericolo per le casse dello Stato: “Il dedotto pregiudizio grave e irreparabile derivante da ‘un ipotetico pagamento integrale ed immediato’ non è, evidentemente, ritenuto tale neppure dalla stessa parte ricorrente, che infatti – si legge nel provvedimento dei giudici – non ha neppure riscontrato l’offerta della resistente di uno sconto di euro 150 milioni con pagamento rateizzato”.
Non solo. “La previsione di spesa per l’anno 2024 illustrata dalla parte ricorrente nulla dice sulla incapacità patrimoniale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Incapacità patrimoniale che non è prospettata, e neppure è plausibilmente prospettabile, pur a fronte dell’ingente somma oggetto della condanna”. Quanto alla comparazione tra il pregiudizio per il bilancio dello Stato e il beneficio per la società creditrice dall’incasso della somma oggetto della condanna, la corte osserva come non si tenga conto “dell’aggravio per soli interessi derivante alle casse dello Stato dal ritardo nel pagamento della somma oggetto della condanna, aggravio di cui si è già esposta l’entità per ogni anno di ritardo”.
Sulla vicenda è intervenuta in più occasioni la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, segnalando il contrasto tra la direttiva sulla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni e le norme nazionali che avevano prorogato per il 1998 l’obbligo di pagamento del canone a carico dei concessionari di settore. In particolare, nel 2020 la magistratura europea ha stabilito che il sistema normativo comunitario non consentiva a una normativa nazionale di prorogare per l’esercizio 1998 l’obbligo imposto a un’impresa di telecomunicazioni, precedentemente concessionaria (come TIM), di versare un canone calcolato in funzione del fatturato, ma permetteva soltanto la richiesta di pagamento dei costi amministrativi connessi al rilascio, alla gestione, al controllo e all’attuazione del regime di autorizzazioni generali e di licenze individuali.