A conti fatti è una manna per i conti di Tim, che si ritrova con un miliardo di euro in più senza senza colpo ferire. In realtà è una storia giuridicamente poco edificante che dice moltissimo del sistema legislativo italiano, con una figuraccia anche della giustizia amministrativa, in testa il Consiglio di Stato. La corte d’appello del tribunale civile di Roma ha dato ragione all’ex monopolista sui canoni di licenza per l’anno 1998 indebitamente versati al ministero dell’Economia e che ora si vedrà restituire: 528 milioni di euro, più interessi e conguagli che dovrebbero portare la cifra finale a circa un miliardo di euro (più spese legali che partono da 550mila euro). A pagare sarà la Presidenza del Consiglio dei ministri costituita in giudizio e difesa dall’avvocatura di Stato. La notizia, anticipata da Bloomberg nel tardo pomeriggio, ha fatto schizzare il titolo di Tim in Borsa che ha chiuso con un rialzo del 5,19% dopo settimane di passione e crolli innescati dal nuovo piano industriale che prevede la cessione della rete al fondo Usa Kkr. Un piano non proprio gradito al mercato visto che i livelli di debito che resteranno più elevati del previsto. Palazzo Chigi ha annunciato ricorso e la richiesta di sospendere il pagamento, che è subito esecutivo.

La vicenda processuale è un vero gioco dell’oca durato 25 anni ed è una delle prime volte in cui viene condannata la presidenza del Consiglio dei ministri per una sentenza del Consiglio di Stato considerata errata. Nel 1998 l’allora Telecom si vede costretta a versare il canone di licenza (386 milioni per Telecom Italia e 143 milioni di euro per l’ex Tim, oltre agli interessi) a causa di norme nazionali che avevano prorogato l’obbligo di pagamento di un anno nonostante una direttiva Europea del ’97 lo avesse annullato a seguito della liberalizzazione del settore. Tim ricorre al Tar del Lazio, che rimanda la questione alla Corte di Giustizia europea che – siamo già arrivati a febbraio 2008 – gli dà ragione visto che la direttiva ha eliminato il canone. Il Tar però ignora la decisione e dà ragione al Tesoro: il canone va versato. Tim fa di nuovo ricorso ma il Consiglio di Stato nel 2009 dà ragione al Tar e conferma la sentenza. Sul fronte amministrativo il caso si chiude. A quel punto il colosso si rivolge al tribunale civile chiedendo mezzo miliardo di danni a Palazzo Chigi per “violazione manifesta del diritto comunitario dei magistrati del Consiglio di Stato”, ai sensi della legge 117 del 1998. A quel punto parte il vaglio di ammissibilità per valutare la competenza del tribunale di Roma a decidere sulla questione. Il tribunale prima dichiara inammissibile la domanda di Tim, poi in appello la decisione viene ribaltata e quindi il ricorso diventa ammissibile. A marzo 2015 però arriva l’ennesima giravolta e la sentenza di primo grado dichiara la domanda della società inammissibile. Tutto finito? Nemmeno per sogno perché Tim fa ricorso: la decisione era attesa per il 2 aprile 2019, invece è stata rinviata di anno in anno fino ad oggi, quando la Corte d’appello di Roma ha dato ragione a Tim: quei soldi non erano dovuti. La sentenza parla di “macroscopicità della avvenuta violazione del diritto comunitario”. I giudici della Corte scrivono che “i termini della prospettata violazione ad avviso di questa Corte paiono come detto integrare addirittura una ‘negligenza inescusabile’ tenuto conto del grado di chiarezza delle norme violate, della esistenza di una giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha chiarito la illegittimità degli oneri pecuniari quali il canone concessorio”. Tutto questo a 25 anni dai fatti contestati.

Come detto, Palazzo Chigi in una nota fa sapere che farà ricorso e chiederà nel frattempo di sospendere il pagamento. Stando a quanto risulta al Fatto, durante il governo Draghi sarebbe stata scartata l’ipotesi di una transazione intorno ai 350 milioni per chiudere la vicenda. Adesso il conto per lo Stato è di un miliardo, soldi che andranno ad alleviare i conti del gruppo guidato da Pietro Labriola, gravato da un maxi debito da oltre 20 miliardi che obbliga a bruciare cassa ogni giorno. Se la condanna verrà confermata in Cassazione, la palla potrebbe anche passare alla Corte dei conti per possibili danni erariali.

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