Braccianti, in un libro la storia di Balbir ridotto in schiavitù in provincia di Latina: “Per mangiare rubava gli scarti a maiali e galline”

“Sotto il dato numerico ci sono le persone, le vite reali. In primo luogo bisogna incontrarle, le persone. Dopo, ma soltanto dopo, possiamo anche contarle. Ma se non si cerca di conoscere la loro storia, se non si va a vedere come vivono non si capisce fino in fondo quello che succede intorno a noi”. Perché Balbir “non stava dentro ai dati che vengono usati per fotografare il fenomeno”. Quello dello sfruttamento del bracciantato agricolo, le centinaia di migliaia di invisibili che lavorano la terra e per una manciata di euro l’ora fanno arrivare sulle tavole i prodotti delle campagne. Sottopagati, sfruttati, quando non addirittura ridotti in schiavitù, come Balbir Singh, il bracciante indiano la cui storia Marco Omizzolo ha raccontato nel suo ultimo libro, “Il mio nome è Balbir“, edito da People.
“Balbir non viveva ai confini del mondo – racconta Omizzolo, sociologo Eurispes e docente alla Sapienza che ha racconta lo sfruttamento nell’Agro pontino in decine di pubblicazioni tra cui “Sotto padrone” (Feltrinelli 2019) -, ma a 60 km dal Parlamento italiano e dal Vaticano. Era costretto a vivere come un animale nel nord della provincia di Latina (teatro nel giugno 2024 dell’atroce morte di un altro bracciante, Satnam Sing, ndr). I titolari dell’azienda in cui lavorava lo tenevano in una roulotte senza luce, acqua e gas. Per 6 anni ha lavorato fino a 14 ore al giorno, tutti i giorni, per 150 euro al mese. Perché non scappava? Perché era isolato, perché non conosceva i propri diritti e soprattutto perché il padrone gli aveva tolto i documenti, come capita a migliaia di braccianti in tutta Italia, il che ha prodotto la sua clandestinizzazione. Senza quelli non poteva andare da nessuna parte, per effetto della legge Bossi-Fini era un irregolare senza diritti, l’ultimo degli invisibili”.
Sei anni di invisibilità, di confinamento e sfruttamento. E’ cominciata quando Balbir aveva 45 anni, è finita dopo i 51. “Sai qual è la cosa che mi ha impressionato di più? prosegue Omizzolo – Che quest’uomo faceva le pulizie nel ristorante dell’azienda. Gli italiani, noi italiani che andavamo a mangiare lì lo vedevamo, lo guardavamo, magari scambiavamo con lui anche qualche parola, ce l’avevamo sotto gli occhi. Ma nessuno è mai intervenuto”. Intanto Balbir viveva come un animale da cortile: “Per mangiare in quei 6 anni rubava gli avanzi del ristorante dell’azienda che il padrone dava alle bestie o che finivano nello scarto dell’umido. ‘Per sopravvivere dovevo competere con i maiali e con le galline‘, mi ha raccontato”.
Per anni molti hanno visto, nessuno ha fatto o detto nulla. Poi la liberazione, avvenuta quasi per caso. Un giorno nell’azienda arriva un venditore ambulante indiano. Balbir gli si avvicina, gli racconta velocemente la sua storia, gli chiede aiuto. “Questo ambulante aveva partecipato con me agli scioperi dei braccianti dell’Agro pontino – spiega il sociologo -, e mi racconta questa storia. Io verifico che i fondamenti della vicenda fossero veritieri e decido di intervenire. Faccio arrivare a Balbir una busta con cibo, vestiti, un cellulare con una scheda su cui avevo caricato un po’ di soldi. E iniziamo un rapporto a distanza: per alcuni mesi ci siamo sentiti ogni sera e ogni volta lui aggiungeva un pezzo al racconto. In quel periodo Balbir ha preso coscienza della situazione, ha capito di avere alcuni diritti e ha deciso di denunciare. A quel punto ho avvertito i carabinieri, che hanno fatto partire l’indagine e poi sono intervenuti, arrestando il padrone e liberandolo dalla condizione di schiavitù in cui viveva”.
Quindi Balbir ha trovato un imprenditore che gli ha fatto un contratto a tempo indeterminato che gli ha permesso di avere un permesso di soggiorno. E la sua storia ha segnato una frontiera nella lotta allo sfruttamento agricolo in Italia: Balbir è stato il primo bracciante immigrato gravemente sfruttato a ottenere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. “Se prima di questo caso – spiega Omizzolo – il documento durava solo il tempo del processo, quello di Balbir è stato il primo a diventare rinnovabile e convertibile grazie al comando provinciale dei carabinieri e alla procura di Latina che hanno riconosciuto la sua condizione di schiavitù e si sono espressi in maniera favorevole alla convertibilità. Si è trattato di un’innovazione procedurale, non normativa. Il risultato è che ora chi viene riconosciuto nelle stesse condizioni può richiedere questo tipo di permesso”.
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