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Una lettura socio-culturale del nuovo codice della strada: perché non funzionerà senza un cambio di narrazione

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Sebbene sia ancora presto per valutare l’eventuale efficacia del nuovo codice della strada, il testo ha già suscitato numerose critiche a causa di alcune presunte carenze tecnico-legali. Nei molti articoli e dibattiti dedicati al tema, ho notato tuttavia una quasi totale assenza della dimensione socio-culturale del problema, aspetto che, a mio avviso, rappresenta invece il fulcro della questione. Con l’intento di promuovere una riflessione più profonda e completa, desidero quindi porre l’accento su alcune questioni che ritengo fondamentali.

La prima riguarda la cultura della performance estrema e della trasgressione: da un lato, la velocità e la voglia di primeggiare a tutti i costi; dall’altro, le droghe e lo sballo, tutti elementi che, negli ultimi decenni, i media hanno trasformato in simboli di successo, libertà e fascino personale. Siamo stati letteralmente bombardati da pubblicità che veicolano l’idea che osare, spingersi oltre i propri limiti e superare sé stessi siano virtù da perseguire per emergere da quella massa nella quale, paradossalmente, ci relegano. Slogan dozzinali e messaggi tossici, studiati ad arte per legare a doppio filo queste mitologie del nostro tempo con il sesso, la socialità vuota e il lusso. Per non parlare di film, videoclip e videogiochi in cui lo sballo è spesso associato a personaggi seducenti, il cui stile di vita da free rider produce, nel mondo reale, solo incidenti inutili e tragedie evitabili.

Se nella fiction certe esagerazioni sono fisiologiche all’intrattenimento, così come alcuni comportamenti rischiosi possono rendersi improvvisamente necessari in caso di reale emergenza, non c’è nulla di più penoso che scimmiottare atteggiamenti da action movie, neanche fossimo Vin Diesel o Paul Walker, ove non richiesto. Oltre al pericolo, eviteremmo anche il ridicolo: jeep pensate per attraversare il deserto utilizzate per arrampicarsi sui marciapiedi, moto dotate di motori a reazione nucleare per andare a fare la spesa, scooter che sfrecciano come navicelle di Star Wars in battaglia, monopattini guidati come fossimo in GTA V. Lo sfondo e il contesto, signori! Mad Max può sfrecciare con la sua desert buggy in mezzo a una tempesta di sabbia, un’ambulanza può correre all’impazzata per salvare un ferito, altrimenti si diventa ridicoli e caricaturali come quei personaggi dei cartoni animati che cercano di abbattere una mosca col bazooka o di tagliare il prato con un carro armato.

La seconda questione riguarda il contesto generale. Molti di questi comportamenti adolescenziali avvengono, peraltro, in luoghi sempre più congestionati, caratterizzati da traffico incessante e spazi ridotti all’osso, in cui il veicolo si trasforma, da semplice mezzo di trasporto, a simbolo di potere e strumento di sopraffazione del prossimo. Non è certo un caso che la cultura pop degli ultimi decenni abbia cavalcato il mito della giungla urbana, un luogo nel quale le faide tra tribù sono ormai all’ordine del giorno: automobilisti contro ciclisti, monopattinisti contro motociclisti, pedoni contro runner. Ma le leggi, si sa, sono per i deboli, per i fessi, perché i “veri uomini” seguono le regole della strada, espressione che rivela molto più di quanto vorremmo ammettere…

Duelli all’ultimo sangue per una corsia libera, sgommate furiose per arrivare primi al semaforo, clacson impazziti mentre qualcuno cerca di parcheggiare. Automobilisti che viaggiano a 60 km/h in corsia centrale, piloti della domenica che si attaccano al veicolo precedente per far “sentire la presenza” (direbbe Ruggero De Ceglie) convinti che a 140 km/h sfrutteranno il vuoto d’aria per il sorpasso decisivo. Strisce pedonali trasformate in zone di guerra, pedoni impazziti che si lanciano in attraversamenti creativi in piena notte (possibilmente vestiti di nero e compiendo lunghe diagonali). Nessuno usa più i lampeggianti, quasi fosse un segno di sottomissione oltre che alla sicurezza anche alle buone maniere, per non parlare dell’uso sconsiderato degli smartphone che, nonostante possano essere utilizzati con bluetooth o vivavoce, molti si ostinano a tenere in mano, quasi fossero una protesi cibernetica.

Ciò detto, se davvero si volesse tutelare la popolazione (cosa sulla quale ho forti dubbi) basterebbe considerare qualche soluzione di buon senso, elemento tuttavia ormai severamente bandito dai ragionamenti dei nostri governanti.

In primo luogo, leggi e provvedimenti tecnici andrebbero sempre contestualizzati e modulati in base a una data realtà, quella italiana ad esempio, caratterizzata nello specifico da mezzi di trasporto assenti o totalmente inadeguati. È mai possibile che in una capitale la metro chiuda alle 23:30 e che occorra aspettare i bus, se presenti, con la stessa pazienza di chi cerca di avvistare una creatura mitologica? E che dire dei taxi, carissimi e spesso irreperibili, e non sempre irreprensibili nel presentare il conto della corsa? E poi le strade, in condizioni assolutamente pessime: buche, dossi, scarsa illuminazione, segnaletica stradale assente, cartelli arrugginiti, incroci visionari, immissioni della speranza, attraversamenti pedonali in curva, semafori nascosti dagli alberi, parcheggi in posizioni senza senso, ecc. Perché non cominciare da qui, invece di continuare a prendere i cittadini per i fondelli?

In secondo luogo, come anticipato, c’è soprattutto una battaglia culturale da combattere: i provvedimenti legislativi hanno senso solo se affiancati da una più ampia strategia volta a mettere in crisi un intero sistema di modelli culturali assurdi. Occorre mettere in evidenza, con spietatezza, la povertà morale, lo squallore e la solitudine di certi schemi sociali in cui valori positivi quali libertà, felicità e successo si riducono a correre in auto, saltare la fila, parcheggiare sulle strisce, sorpassare come in Formula 1 o farsi un video a 240 km/h.

È necessario cambiare radicalmente la narrazione e iniziare a veicolare modelli alternativi che ridicolizzino comportamenti ritenuti vincenti dalle masse: il tipo in giacca di pelle che butta la sigaretta dal finestrino pensando di essere in una puntata di Gomorra è un frustrato; il coatto con la sportiva del discount che sgomma per arrivare primo allo stop è uno sfigato; il soggetto che gira con l’Hummer per le stradine del paesino è uno scemo. Bisogna stigmatizzare questi comportamenti trattandoli per quello che sono, ovvero segni di mediocrità, povertà, solitudine, rabbia repressa, frustrazione, omologazione, nonché di profonda insicurezza psicologica…

Senza un radicale cambiamento culturale di paradigma, qualunque misura restrittiva si rivelerà sostanzialmente inefficace, se non addirittura controproducente. In tal senso, vista la poca familiarità dei nostri governanti con la cultura e il sapere, suggerisco loro di prendere esempio direttamente dal mondo animale, con il quale hanno forse più affinità, un luogo nel quale, come ricorda il filosofo della scienza Telmo Pievani, gli individui che assumono comportamenti dannosi per la collettività vengono sanzionati socialmente al fine di scoraggiare atteggiamenti che, a maggior ragione nella polis degli uomini, non dovrebbero più essere tollerati.

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