Nelle stesse ore in cui migliaia di siriani vivevano e festeggiavano la prima mattinata senza la famiglia Al Assad negli ultimi 50 anni, le truppe israeliane hanno iniziato a muoversi dalle loro postazioni sul Golan occupato, per entrare nella zona cuscinetto demilitarizzata dal 1974 ed occupare anche la città di Quneitra, che poche ore prima i residui battaglioni dell’Esercito lealista avevano abbandonato, sull’onda della soverchiante offensiva dei ribelli di Hayat Tahrir Al Sham. L’ennesima mossa unilaterale, quella israeliana, che il premier Benjamin Netanyahu ha attribuito a necessità “difensive, per tutelare la nostra sicurezza e la nostra sovranità”, prima di ribadire che “il Golan (l’ampia porzione di esso già occupata dal 1967, ndr) apparterrà ad Israele per l’eternità“. Gli ha fatto eco il ministro degli Esteri, Gideon Sa’ar, che ha parlato di azioni “precauzionali”, in riferimento ai movimenti sul Golan ma anche ai bombardamenti su diverse località siriane, soprattutto nei dintorni di Damasco.
Mentre le truppe avanzavano nel Golan, superando la Linea Alfa stabilita dall’Onu come soglia che Israele non deve oltrepassare, le Israel Defense Forces infatti bombardavano anche la quasi totalità – analisti israeliani parlano dell’80% – delle infrastrutture militari siriane, dai depositi di armi ai centri di ricerca militare, dagli aeroporti militari all’intera flotta della Marina ancorata a Latakia, oltre 600 km dal confine israeliano, motivando gli attacchi con la necessità di “evitare che queste infrastrutture finiscano nelle mani dei terroristi“, la cui avanzata Israele ha peraltro ampiamente facilitato. In tutto, Tel Aviv avrebbe compiuto circa 480 bombardamenti in Siria in poco più di ventiquattro ore. Secondo diverse testimonianze, inoltre, le truppe israeliane sarebbero arrivate ad una trentina di chilometri da Damasco, nei pressi della città di Qahtana, ed occupando la cima ed il versante siriano del Monte Hermon.
Non è dato sapere quali siano gli obiettivi di Israele con questa avanzata. E’ verosimile il superamento della Linea Alfa abbia la funzione di rafforzare lo status quo e le proprie posizioni nel Golan stesso: avanzare di qualche decina di chilometri in modo da poter forzare, in una eventuale successiva sede negoziale, il riconoscimento dell’annessione del Golan, avvenuta nel 1981 e riconosciuta nel 2019 dai soli Stati Uniti di Donald Trump. Proprio l’imminente ritorno del tycoon, amico personale di Netanyahu, potrebbe agli occhi di quest’ultimo facilitare questo tipo di sviluppo.
C’è anche la questione delle risorse idriche, di cui il Golan è molto ricco, ospitando anche decine di ruscelli, sorgenti e affluenti del fiume Giordano, che poi alimentano il lago di Tiberiade, cioè la principale fonte d’acqua non salata in Israele. Controllare la totalità del Golan permetterebbe a Tel Aviv di mantenere stabile l’accesso ad un numero molto più grande di risorse idriche, diminuendo il rischio siccità e alimentando la propria agricoltura, particolarmente intensiva, che richiede quindi un enorme consumo d’acqua. Prima del 1967, la Siria poteva deviare le acque del Giordano, riducendo il flusso d’acqua verso Israele.
Un altro obiettivo, infine, potrebbe averlo indirettamente caldeggiato Benny Gantz, leader dell’opposizione a Netanyahu, che mentre le Idf sfondavano la Linea Alfa parlava di “opportunità storica” invocando “lo sviluppo di relazioni con i drusi, i curdi e gli altri gruppi in Siria”. Affermazione pacifica di per sé, che però suggerisce due conclusioni: l’appello viene rivolto non casualmente ai gruppi etnici che tradizionalmente si sono opposti di più (o gli sono stati più indifferenti, o scettici) alle opposizioni armate contro Bashar Al Assad; ed in secondo luogo, l’esplicitazione della volontà di stabilire relazioni con “alcuni” gruppi, in uno Stato che è in procinto di ricostruirsi e cercare un proprio nuovo assetto istituzionale, possibilmente inclusivo, implica che Tel aviv coltiva già rapporti ostili alle formazioni ascese a Damasco, e soprattutto che si aspetta – oppure è in grado di indurli, questi cambiamenti? – una Siria “libanizzata“, o meglio cantonizzata, sostanzialmente non unita, ed ovviamente più debole. E’, di fatto, l’analisi offerta dal ricercatore ed ex Colonnello delle Idf, Anan Wahabi (di etnia drusa) al Times of Israel: per Wahabi “il moderno Stato Nazione ha fallito in Medioriente”, e la Siria dovrebbe e potrebbe essere divisa in quattro cantoni, “ognuno libero di cooperare con attori esterni, incluso Israele”.
Una proposizione che, ironia della sorte, ricorda molto il citato Libano. Nella fattispecie, il suo assetto di “power sharing comunitario”, perennemente esposto a “sponsor” ed influenze straniere sulle diverse comunità ed i loro partiti confessionali di riferimento, nonché criticato proprio per la sua natura “centrifuga”, che indebolisce l’unità nazionale, allontanando dal centro, ed ha fatto emergere movimenti come – ma non solo – Hezbollah, a lungo descritto dai suoi detrattori come più fedele allo sponsor iraniano che al Libano stesso. Sebbene non esistano conferme a questa affermazione, Wahabi ha riferito anche che alcuni incontri non ufficiali tra israeliani e “figure dell’opposizione siriana interessate alla pace” sarebbero già avvenuti, e in essi si sarebbe già parlato di progetti ambiziosi come “una linea ferroviaria per Haifa” o impianti per la desalinizzazione.
Israele sembra gradire una cantonizzazione della Siria, o perlomeno uno scenario che ponga il triangolo meridionale della Siria in condizioni simili al Kurdistan iracheno, quindi con una ampia autonomia, persino delle proprie Forze armate, e che sia appunto funzionale al rafforzamento delle relazioni tra la sua comunità drusa – cioè cittadini siriani che sin dall’annessione unilaterale del 1981 hanno sempre rifiutato la cittadinanza israeliana, e in certa misura si muovono da una parte e dall’altra del confine – e quella siriana, e che faciliti anche lo spostamento di confini notoriamente mobili. In vista, magari, di una annessione ulteriore.