La Camera nega le intercettazioni e Cosimo Ferri scampa ogni conseguenza disciplinare per il mercato delle nomine all’hotel Champagne. Il verdetto del Csm è arrivato martedì: il magistrato ed ex sottosegretario renziano alla Giustizia, già leader della corrente conservatrice di Magistratura indipendente, è stato assolto dalle accuse di violazione dei “doveri di correttezza ed equilibrio”, di “comportamento gravemente scorretto” e di “uso strumentale della propria qualità e posizione (…) diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste”. L’episodio è quello che fece deflagrare lo scandalo nomine: la notte del 9 maggio 2019, Ferri, allora deputato Pd in carica, fu ascoltato dal trojan installato nel cellulare di Luca Palamara – ai tempi potente capo della corrente UniCost – durante una riunione clandestina in un albergo romano, l’hotel Champagne, in cui si disegnavano strategie sulla scelta del nuovo procuratore della Capitale. All’incontro partecipavano anche l’ex ministro dem Luca Lotti (in quel momento imputato proprio a Roma per il caso Consip) e cinque membri togati del Csm, ai quali, di lì a poco, sarebbe toccata la nomina.

Per quella vicenda Palamara è stato radiato dall’ordine giudiziario e i cinque ex consiglieri condannati a lunghe sospensioni dalle funzioni e dallo stipendio. Ferri era destinato a una conseguenza simile, e invece ne è uscito pulito come un giglio: poiché all’epoca era parlamentare, per usare i nastri nei suoi confronti serviva l’autorizzazione della Camera, che l’ha negata per ben due volte. Così, venuta meno l’unica prova a carico, la Sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli non ha potuto fare altro che assolvere l’ex giudice ed ex politico, al momento distaccato presso il ministero di via Arenula (per effetto della legge Cartabia contro le porte girevoli) e membro del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria.

Le intercettazioni al centro del caso erano state disposte nell’ambito di un’indagine per corruzione aperta a Perugia nei confronti di Palamara (che poi ha patteggiato per traffico d’influenze). Per questo, a luglio 2021, la Sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli aveva chiesto alla Camera l’autorizzazione successiva a utilizzarle nei confronti di Ferri, in base all’articolo 6 della legge Boato sulle prerogative dei parlamentari, in quanto conversazioni captate “nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento”. A gennaio 2022 Montecitorio risponde di no: ma lo fa citando un’altra norma, l’articolo 4 della stessa legge, che richiede invece l’autorizzazione preventiva in caso di intercettazioni dirette verso un parlamentare. Secondo i deputati, infatti, le registrazioni di Ferri non erano state casuali, ma volute o comunque previste dall’autorità inquirente (la Procura di Perugia). Contro questa tesi il Csm ha sollevato conflitto d’attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, che lo ha accolto la scorsa estate: “Gli elementi addotti dalla Camera (…) non sono idonei a dimostrare univocamente” che i pm volessero intercettare Ferri tramite Palamara, scrivono i giudici della Consulta, ordinando all’Aula di esprimersi ancora una volta sulla richiesta del Csm, in base però all’articolo 6.

Detto fatto, a dicembre arriva un altro diniego: la Sezione disciplinare, sostiene la Camera, “non ha chiarito “in modo palese e stringente” le ragioni per le quali le captazioni informatiche in questione sarebbero necessarie e indispensabili ai fini della prosecuzione del procedimento disciplinare a carico dell’onorevole Ferri e, quindi, i motivi per cui, per sostenere l’incolpazione, essa non ne potrebbe fare a meno“. Una tesi talmente poco convincente che la Procura generale della Cassazione, rappresentante dell’accusa nel giudizio discipliinare, ha chiesto (come anticipato dal Fatto) di sollevare un nuovo conflitto di attribuzione tra il Csm e Montecitorio: “Alla Camera compete una verifica sulla natura plausibile della motivazione sulla necessità di utilizzo. Non è richiesta la verifica della indispensabilità dell’utilizzo delle intercettazioni, ma soprattutto non è ammissibile che la Camera di appartenenza sovrapponga il giudizio di merito a quello del giudice richiedente”, ha ricordato in udienza il sostituto pg Simone Perelli. La richiesta, però, non è stata accolta dalla Sezione disciplinare, presieduta dal vicepresidente dell’organo di palazzo dei Marescialli, l’avvocato leghista Fabio Pinelli. Tramontata questa strada, la decisione nel merito è divenuta obbligata: assoluzione. E tutto è perdonato.

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