Quando attraversavamo il sottopassaggio dell’estramurale, noi ragazzini di Carrassi dovevamo obbedire a un ordine preciso dei nostri genitori: non guardate dentro. Dove il “dentro” era la scuderia di Savinuccio Parisi, il boss che si era preso il quartiere di Japigia e dominava incontrastato la periferia di Bari dopo essersi spartito il traffico di eroina con Tonino Capriati.

L’estramurale è la cinta che separa la zona murattiana dalla città cresciuta prevalentemente nel Dopoguerra: ha vari accessi, automobilistici e pedonali, ma noi passavamo sempre dallo stesso. Salire le scale sulla ferrovia era considerato ancora meno sicuro, per via dei tossici molesti. Savinuccio Parisi, invece, teneva i cavalli da corsa (con relative scommesse) a due passi dalla parrocchia di Sant’Antonio e da padre Vito Bracone, prete di strada che raccattava i ragazzini del rione Madonnella per sottrarli a una vita criminale (la famosa antomafia sociale di cui parla adesso Michele Emiliano). Uno sguardo di troppo poteva costare caro.

La Bari in cui sono cresciuta non somiglia per niente alla meta turistica amata oggi in tutto il mondo. La Bari in cui sono cresciuta era una città pericolosa. Una città in cui nei giardini di piazza Umberto, l’unico spazio più o meno verde del centro, che in realtà era più cemento che alberi, dovevi stare attento a non incorrere in siringhe abbandonate o pedofili nascosti dietro le siepi. Una città in cui i ragazzini di prima media, com’era all’epoca mio fratello, venivano rapinati dell’orologetto di plastica nel breve tragitto da scuola a casa. Una città in cui le adolescenti come me venivano molestate, inseguite, insultate.

Bari era poi una città che aveva cuore pulsante in cui era vietato entrare. Il “borgo antico”, come lo chiamano oggi per darsi un tocco di charme, alla fine degli anni 80 era semplicemente Bari Vecchia. E per noi era off limits. Si narra che, un tempo, i baresi attirassero i pirati dal mare nel dedalo intricato di vicoli, al di qua della Muraglia, per poi gettare olio bollente dai balconi. Ecco, per noi ragazzini di periferia quell’olio si era trasformato in proiettili vaganti, scippi, rapine. Avevamo paura, e facevamo bene ad averla.

A Bari Vecchia non si poteva entrare, e chi lo faceva rischiava. Non solo perché accadeva con precisione matematica che ti strappassero la borsa, ma anche perché i carabinieri che poi prendevano la denuncia erano capaci di scrivere che la borsa era “d’orata”. Davvero. Lo Stato a Bari Vecchia non c’era, e se c’era dormiva, chiudeva gli occhi, lasciava che i Capriati e gli Strisciuglio (i due clan in guerra tra loro, come bene ha raccontato Antonio Massari su questo giornale) si sparassero indisturbati.

Le rare volte in cui, d’estate, in quel meraviglioso luogo che è il Fortino si organizzavano eventi, concerti, cineforum, i nostri genitori erano costretti a venirci a raccattare nel cuore della notte. “Quanto entri in macchina, abbassa la sicura”. In macchina, sì, perché prima di Antonio Decaro assessore, a Bari Vecchia si entrava in macchina. E se ti trovavi chiuso dai motorini dei clan avanti e dietro, erano cazzi tuoi.

Io sono andata via da Bari nel 1994, a 19 anni, convinta – nonostante il mio impegno politico e civico – che fosse una terra senza speranza. Mio zio, Nino Volpe, che è stato un grande barese, amato e ricordato ancora oggi, me lo disse in punto di morte: “Resta, questa è la tua casa, e può ancora cambiare”. Non gli diedi retta, sbagliando.

Quando Nichi Vendola divenne governatore, la profezia di zio Nino cominciò ad avverarsi. Dopo, grazie all’impegno e alla costanza delle amministrazioni regionali e comunali, Bari Vecchia è diventato un gioiello, San Nicola protegge le migliaia di turisti che si perdono tra i vicoli, via Sparano ha poco da invidiare alle vie dello shopping delle capitali europee. E persino Carrassi sembra meno periferia. Non è tutto perfetto, ovvio, i clan non sono spariti, l’afflato clientelare che ha sempre contraddistinto la borghesia cittadine resiste. Spesso si convive, gomito a gomito, con realtà che di legale hanno poco. Ma Bari non è più quella da cui sono scappata.

Vivo a Roma da 22 anni, ma oggi, quando mi chiedono di dove sono, sono orgogliosa di rispondere: “Di Bari”.

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