“Quando sarà il marito a dire ‘mia moglie mi aiuta’ forse saremo sulla strada della parità”. Giovanna Gianturco è Ordinaria di sociologia generale presso l’università La Sapienza. Dal 2020 è anche direttrice del corso di formazione in “Culture contro la violenza di genere: un approccio transdisciplinare” e del corso di alta formazione in “Politiche e strumenti per la Gender Equality”. Il primo è destinato a chiunque possegga un diploma, il secondo a chi ha una laurea triennale. E non è un caso che l’iscrizione, che per quest’anno termina il 15 marzo, abbia mantenuto il costo simbolico di 100 euro: “Per contrastare la violenza di genere bisogna agire sul piano culturale, diffondere una cultura diversa”. Ed evidentemente per farlo bisogna rendere accessibile il Sapere.

Professoressa Gianturco, com’è nata l’idea di questi corsi?

Nel 2019, sul tema della violenza organizzammo una giornata insieme con la Facoltà di Medicina, su impulso dell’allora preside – oggi Rettrice della Sapienza – Antonella Polimeni. Dal numero di partecipanti e dal loro coinvolgimento capimmo che l’argomento era molto sentito, e quindi pensammo a un corso di formazione. L’approccio è volutamente transdisciplinare – medicina, giurisprudenza, sociologia – perché i saperi e le competenze devono essere messi a sistema per intervenire lungo tutto il ciclo della violenza. Purtroppo, si tende spesso a lavorare sui singoli segmenti, non comprendendo così il fenomeno nella sua complessità.

Per questo dice che bisogna agire sul piano culturale?

La cultura, a differenza della tecnologia, ha bisogno di molto tempo, persino di decenni, per mutare e diffondersi. Prendo a esempio il linguaggio giornalistico: com’è avvenuto per l’immigrazione, così sta cambiando il modo in cui i media rappresentano la violenza. Molto lentamente, ma sta cambiando.

Poi ci sono eventi, come l’orribile femminicidio di Giulia Cecchettin, che danno un’accelerata al processo. Penso all’introduzione nel dibattito pubblico della parola “patriarcato”.

Il patriarcato è la dimensione culturale di base, che permea le famiglie. Apparteniamo a una società che ha risentito moltissimo di un unico modello familiare: nonostante questo stia cambiando, il modo in cui ci guardiamo e in cui guardiamo la realtà avviene attraverso elementi valoriali propri della cultura patriarcale, che viene rinforzata ogni giorno. Pensi alla rappresentazione che ancora si fa dei corpi femminili, alla loro mercificazione. E in questo il sistema dei mass media e dei social network ha grandi responsabilità.

Il modello familiare presuppone anche che la donna guadagni meno dell’uomo, e quindi resti a casa con i figli, soprattutto se si tratta di dover rinunciare a uno dei due stipendi.

Il corso di alta formazione riguarda appunto la Gender equality, l’uguaglianza di genere. E per questo, ribadisco, serve un approccio culturale multidisciplinare.

Negli ultimi anni, e anche in questa legislatura, la politica si è occupata dell’inasprimento delle pene per gli uomini violenti. Quindi non basta?

Oltre alla repressione, serve la formazione. Se non interveniamo sui processi che agiscono sull’interiorizzazione del fenomeno, non lo risolveremo. Bisogna incidere sulla testa, sul modo di guardare il mondo e lo si può fare solo attraverso il lungo processo di socializzazione, che inizia in famiglia e finisce, si fa per dire, sui nuovi strumenti di comunicazione. Ecco, dobbiamo dare alle nuove generazioni gli strumenti per usare quegli strumenti.

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