– “Senti qua: in tv, sulla Rai, c’è un tizio…”
– “Eh.”
– “…Che è tutto vestito di rosa, color fragola proprio. Ha pure una sciarpa a quadri rosa…”
– “Eh.”
– “…E indossa degli occhialini tipo quelli da piscina, blu. E degli stivali di gomma, gialli, da alluvione, hai presente?”
– “Per fare pendant con gli occhialini.”
– “Può darsi. E praticamente questo tizio vestito così è su un palco…”
– “Sarà un comico.”
– “…Ma un palco importante, dove si sta parlando di robe importanti…”
– “Tipo?”
– “I migranti. Finalmente viene detto che la bilancia dell’immigrazione è a favore dell’Italia.”
– “Nel senso che ne prendiamo più che nel resto d’Europa?”
– “No, nel senso che gli immigrati immettono nel nostro sistema pensionistico più denaro di quanto ne venga speso per accoglierli.”
– “Ma dai?!”
– “E a questo tizio qui, vestito di rosa, tolgono la parola e non lo fanno parlare!”
– “E hanno fatto bene! Per una volta che in tv si dice una cosa intelligente, si dà un dato su cui riflettere, ci manca quello vestito da scemo che deve per forza dire la minchiata.”
– “No: è quello vestito di rosa che ha detto la roba dei migranti e gli altri, quelli vestiti bene, gli hanno tolto la parola perché bisognava parlare di cose più importanti.”
– “Tipo?”
– “Le canzoni di Sanremo.”
– “Ah!”
– “Eh!”

Scritta così, mancherebbero solo le indicazioni sulla scena, spoglia e con un occhio di bue puntato sui protagonisti, per farne un quadro da teatro dell’assurdo. Che poi, quello siamo: teatro dell’assurdo.

Il siparietto tra Dargen D’Amico e Mara Venier, che in una sola Domenica IN mette in fila una doppietta aziendalista da Ventennio dimenticando di lavorare per il servizio pubblico e non per chi ad interim lo gestisce, suscita insieme straniamento, indignazione, ilarità, riflessione. In poche parole teatro, perché del teatro ha l’essenza.

Se la differenza tra arte e intrattenimento è nel messaggio che la prima contiene e il secondo distrae, ecco che Sanremo ha avuto molto intrattenimento e poca arte. Al di là delle valutazioni musicali e della necessaria frivolezza, la leggerissima musica italiana si è sottratta a più non posso dal suo ruolo artistico puntando a colpire gli occhi (molto) e le orecchie (meno). Rare le eccezioni, le parole impegnate, che anche quando ci sono state, comunque a margine delle canzoni approvate, puntualmente sono state riprese, bacchettate dall’alto.

Ambasciatori, amministratori delegati, conduttori e saltimbanchi non hanno compreso il principio evidentissimo che la bacchetta serve sì a colpire le mani dei disobbedienti ma anche ad attirare l’attenzione sulla lavagna. È stato colpendoli che Dargen e Ghali hanno potuto aumentare il volume dei loro “genocidio!”, inchiodarli alla lavagna dell’attenzione pubblica e così fare arte e non solo intrattenimento.

Servirà a qualcosa? Non a fermare sbarchi o conflitti; non a ricordarci che viviamo nel più assurdo dei Paesi dove le robe intelligenti le dice il tizio vestito da scemo; non a far capire a chi comanda che le bacchettate hanno fatto il loro tempo e oggi hanno l’effetto contrario.

Serve semmai a riaffermare, una volta ancora, a cosa serve l’arte: a smuovere le coscienze attraverso il dono multiforme dell’espressione e così “mettere in difficoltà” il sistema, esattamente come ha detto/lamentato la zia Venier. In un mondo in cui sono più gli artisti e i talentuosi della gente normale, abbiamo un gran bisogno di Artisti, che ti imbarazzano e che ti inchiodano.

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