Ora che il divorzio tra ArcelorMittal e Invitalia è conclamato, cosa accadrà all’ex Ilva? L’era del colosso franco-indiano nella siderurgia italiana si è formalmente chiusa lunedì a Palazzo Chigi con il rifiuto dei magnati, manifestato davanti al sottosegretario Mantovano e a 4 ministri, di sottoscrivere l’aumento di capitale da 320 milioni di euro, il minimo indispensabile per tenere accese le speranze di rilancio dell’acciaieria. L’ennesima mossa che conclama il disimpegno voluto e cercato da Mittal, al di là delle difese d’ufficio degli ultimi giapponesi della politica italiana che addossano le colpe dell’addio allo cancellazione dello scudo penale, dopo aver portato l’impianto di Taranto a consunzione eliminando un concorrente dallo scenario europeo. Le strade sono tre, tutte impervie e costellate di rischi per l’occupazione, la produzione e l’indotto. Punti che finiranno al tavolo tra esecutivo e sindacati, convocati a Roma l’11 gennaio alle 19.

L’amministrazione straordinaria
Il primo passo, ritenuto quasi scontato da chi segue il dossier, è che Acciaierie d’Italia, la società che gestisce gli impianti partecipata da Mittal (62%) e Invitalia (38%), finisca in amministrazione straordinaria. Verrà quindi nominato un commissario, ritornando al momento in cui la crisi dell’Ilva è iniziata dopo il sequestro degli impianti, tolti alla famiglia Riva in seguito all’inchiesta Ambiente Svenduto che scoperchiò quello che nel processo di primo grado (l’appello inizierà ad aprile) è stato inquadrato dai giudici come disastro ambientale. A quel punto si ritroverebbero in amministrazione straordinaria sia la società ancora oggi proprietaria degli impianti, Ilva, e chi li gestisce. Un bel grattacapo. E sicuramente un nuovo impegno economico per le casse dello Stato, che dovrà fornire al commissario la liquidità per la gestione sotto il monitoraggio dell’Ue. Senza contare il coinvolgimento delle banche – in primis Unicredit – per rifinanziare il debito in pancia agli istituti di credito.

La liquidazione volontaria
Esiste poi la possibilità che si vada verso una statalizzazione a tempo, in attesa della ricerca di un nuovo socio privato. Il governo avrebbe già avuto dei contatti preliminari con Arvedi, acciaieria cremonese che ha rilevato la Ast di Terni, ma al siderurgico di Taranto sarebbe interessata anche Metinvest, la società ucraina che gestiva l’acciaieria di Mariupol distrutta durante l’invasione russa nel Donetsk. Per approdare a una soluzione del genere, in ogni caso, ci vorrà tempo e bisognerà passare da una liquidazione volontaria dell’impresa o attraverso una via stretta di un accordo tra Invitalia e ArcelorMittal per far uscire i franco-indiani dalla compagine societaria, passando quindi a quel punto da una statalizzazione temporanea in attesa di coinvolgere un nuovo player industriale che abbia il know-how per l’ennesimo tentativo di rilancio dell’acciaieria tarantina.

La causa
Su tutto questo incombe il rischio di una causa legale da parte di Mittal, che da mesi accampa pretese nei confronti di Invitalia, che ha già quantificato in un centinaio di milioni di euro. A dicembre gli acciaieri indiani si erano presentati in assemblea con una memoria di 12 pagine che aveva tutto il sapore di un preambolo delle possibili azioni legali che potrebbero scaturire. E anche lo stesso governo, nel comunicare il mancato accordo nel vertice di Palazzo Chigi, ha parlato di un interessamento del team legale di Invitalia. Insomma, che la rottura finisca davanti un tribunale, in una riedizione della “causa del secolo” del 2019, appare un passo – se non scontato – quantomeno probabile. Più che uno snodo liberatorio, il divorzio è l’ennesimo nodo gordiano di una vertenza senza fine.

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