Cultura

La lirica patrimonio Unesco, ma non “bene culturale” per la legge italiana: perché la tutela dell’Onu rischia di essere solo una medaglietta

di Giuseppina La Face

Un grido di giubilo si è levato giorni fa in Italia: e non per la vittoria della Nazionale di calcio. Lo ha suscitato il riconoscimento che l’Unesco ha conferito all’arte del canto lirico italiano, dichiarato “patrimonio culturale immateriale dell’umanità”. Il gaudio si giustifica. Dopo un’anticamera più che decennale – nella precedente legislatura molto si era adoperato il deputato (direttore d’orchestra) Michele Nitti, eletto col M5s e poi passato nel Pd – finalmente le energie mobilitate da varie associazioni riunite nel “Comitato per la salvaguarda del Canto lirico” hanno prodotto il risultato desiderato.

Cos’è un “patrimonio culturale immateriale”? La convenzione Unesco del 17 ottobre 2003 (entrata in vigore nel 2006 e ratificata dall’Italia nel 2007) all’articolo 2, comma 1 usa queste parole: “s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”. E al comma successivo specifica che il patrimonio culturale immateriale si manifesta, tra l’altro, in settori come “le tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, le arti dello spettacolo, le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi, le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo, l’artigianato tradizionale”. In Italia, finora, erano stati dichiarati patrimoni immateriali l’opera dei Pupi siciliani, l’arte delle perle di vetro, la dieta mediterranea, la transumanza, la falconeria, la vite ad alberello di Pantelleria (qui l’intero elenco).

Il vero problema, insoluto, sta nel riconoscimento dell’arte musicale come “bene culturale” nella legislazione italiana. Il nostro Codice dei Beni culturali, emanato nel 2004, testo basilare di riferimento per la tutela, salvaguardia e valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale della Repubblica, all’articolo 2 distingue due categorie: beni culturali e beni paesaggistici. Ma, per il Codice, i beni culturali sono per definizione “materiali”, ossia “cose immobili e mobili” che presentano “interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico”. I beni immateriali nel Codice non sono contemplati. Fanno capolino, è vero, in un articolo 7 bis, aggiunto nel 2008 proprio per recepire la nozione della Convenzione Unesco, ma mettendo ben bene le mani avanti. Infatti, si legge, le “espressioni di identità culturale collettiva” sono “assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali”. Detto in soldoni, per l’Italia i beni culturali immateriali non ci sono, o quasi.

Ora: l’arte musicale come si colloca in questo piccolo labirinto? È un Giano bifronte. Da un lato essa produce beni materiali: partiture, strumenti, costumi teatrali, trattati, documenti audio e video, archivi, edifici appositi, alla stregua di tutti gli altri beni culturali. Dall’altro, produce beni immateriali: opere liriche, musiche da concerto o da chiesa, eseguite e ascoltate, saperi teorici e pratici. Il Canto lirico, che ha una sua irriducibile dimensione storica, è indiscutibilmente un bene immateriale, se ci riferiamo alle tecniche e ai saperi, all’arte del cantante, alla tradizione d’insegnamento. La sua salvaguardia, in quanto patrimonio culturale immateriale – dunque non cosa, non oggetto – è delegata alla trasmissione di generazione in generazione. E questa, per sua stessa natura, si concreta (e non può che essere così) innanzitutto in un investimento pedagogico-didattico. Esso spetta al ministero dell’Università, in primis all’Alta formazione musicale (Afam). Dall’altro lato, poiché il Canto lirico non vive in astratto, ma è affidato alla persistenza di una forma di spettacolo teatrale – l’opera lirica, che si regge sull’affluenza degli spettatori –, la sua salvaguardia esige che si formino gli spettatori, gli ascoltatori, il pubblico. Per farlo, occorre educare i cittadini, e cioè coinvolgere anche la Scuola, in pratica il ministero dell’Istruzione e almeno un po’ anche l’Università.

Le scuole dovrebbero alfabetizzare i giovani, affinché imparino a conoscere e amare l’arte musicale e si abituino a frequentare i teatri. Ma è davvero così oggi? Neanche per idea. Nei licei, a parte il liceo musicale, è del tutto assente la Storia della musica: conclusa la secondaria di primo grado, i nostri ragazzi pèrdono qualsiasi contatto con la cultura musicale, storica e contemporanea. Studiano sì Storia dell’arte, e ciò è molto positivo, ma la conoscenza dell’arte musicale è loro denegata. Proprio quando, nell’età dell’adolescenza, l’educazione dei sentimenti – se ne parla tanto, a proposito e a sproposito – ne trarrebbe un gran vantaggio.

Certo, bisogna investire risorse, mobilitare la volontà politica e intellettuale, coordinare i vari ministeri. È una strada in salita, ma da imboccare subito. Altrimenti il canto lirico, patrimonio immateriale dell’umanità, rischia di condurre una vita stentata, e il riconoscimento Unesco resterà lettera morta: una medaglietta piccina piccina.

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