La riforma dell’Irpef a tre aliquote e altro è parte di quella rivoluzione fiscale che tutti attendevamo da cinquanta anni, come ha affermato Meloni, oppure si tratta della montagna (demagogica) che ha partorito il proverbiale topolino?

Stavolta il giudizio è abbastanza facile e obiettivo. Prendendo a prestito un titolo da film western tipo anni Settanta potremmo dire che la riformetta Leo-Meloni è brutta, sporca e cattiva.

Intanto è brutta perché l’accorpamento delle aliquote è previsto solo per un anno. Non si era mai visto un tale riformismo deleterio che aumenta l’incertezza e la fragilità del nostro sistema fiscale. Poi è anche sporca perché non riguarda tutti i contribuenti ma ne taglia fuori alcuni milioni. La riforma non riguarda gli incapienti, la fascia bassa, ma nemmeno coloro che hanno un reddito lordo superiore ai 50.000 euro annuali. Quando alcuni anni fa il governo decise di ridurre gli sconti fiscali sopra i 120.000 euro, chi ora è al governo gridava allo scandalo perché si colpiva il ceto medio. Ora l’asticella della ricchezza è stata violentemente abbassata a 50.000 euro che evidentemente Meloni e la destra considerano la soglia della ricchezza, con spregio dei dati fiscali e totale incoerenza. Un fisco ancora più diseguale e irrazionale.

Da ultimo, è anche una riforma cattiva, cioè non produce quella clamorosa riduzione delle tasse promessa da Meloni nella campagna elettorale del settembre 2022. Ai fortunati vincitori della lotteria della nuova Irpef sarà fatto uno sconto annuale al massimo di 260 euro. Dunque saranno solo pochi i fortunati che si porteranno per intero a casa la pizza mensile offerta dalla destra, ma solo al o alla capofamiglia, naturalmente.

Questo basta e avanza per bocciare nettamente lo sgorbio di riforma al quale il viceministro Leo ha lavorato per mesi, andando anche in direzioni diverse. Poi, si sa, esigenze di gettito e il ministro nella sua fantasia si è fermato a quota quattro miliardi per un anno. Molto meglio aveva fatto Draghi fermandosi a quota sei ma per sempre.

Il punto però non è questo. La domanda fondamentale rispetto a questo fisco ad orologeria è se affronta almeno i due nodi fondamentali dell’Irpef, cioè l’erosione e l’evasione fiscale. Questi sono i veri tarli della nostra imposta costituzionale e non tanto il numero delle aliquote. Anche qui la risposta è desolante.

Sull’erosione della base imponibile, la destra va avanti con il meccanismo delle flat tax che consente una tassazione separata e con aliquota notevolmente più bassa di quote importanti di reddito. L’ultimo scempio è stato l’innalzamento del fatturato per gli autonomi benestanti della flat tax da 65.000 a 80.000 euro che, secondo le stime dell’Upb, garantirà ai fortunati uno sconto di circa mille euro netti al mese.

Oggi in Italia, due milioni di proprietari di case date in affitto e ancora due milioni di autonomi possono contare su una tassazione scandalosamente agevolata. Tutti redditi sottratti alle regole costituzionali dell’Irpef per ragioni politiche o poco chiare. Tra l’altro, su questo punto, Meloni ha ingannato ancora una volta gli italiani. La promessa flat tax incrementale sul reddito annuale, cioè quella per tutti, è scomparsa dai radar del ministro Leo ed è stata rimandata sine die.

Sul fronte dell’evasione la situazione è egualmente critica. La povera Irpef è un secchio con molti buchi, da anni sempre quelli peraltro. L’ultima relazione sull’economia non osservata ci dice che l’Irpef è stata evasa nel 2020 per circa 4 miliardi dai lavoratori dipendenti e per 28 miliardi da imprenditori e autonomi. Quasi sconvolgente è il tax gap, cioè il rapporto tra imposta evasa e quella da pagare. Per i dipendenti è del 4% e per gli altri si arriva al 70%.

C’è da notare poi che i milioni di evasori godono anche degli abbondanti servizi dello Stato sociale e, per così dire, derubano due volte: non pagano ma costano. Su questo fronte Meloni nella sua saggezza popolare propone di affrontare il problema attraverso la collaborazione con i contribuenti sleali, in primis con il perdono dei condoni. Se questo nuovo corso della clemenza fiscale funzionerà lo vedremo. Sarebbe stato meglio adoperare una misura di nessun costo per l’erario e cioè la riduzione dell’uso del contante che invece è stato alzato. L’uso del contante è la palude preferita da evasori incalliti e criminalità organizzata.

Di fronte a questa riformina, come non guardare indietro? L’Irpef del ministro Bruno Visentini del 1973 era uno spettacolare edificio di 32 piani, le aliquote, che voleva realizzare pienamente il dettato costituzionale e garantì le risorse per le grandi riforme degli anni Settanta. Dopo cinquant’anni ci ritroviamo con una disastrata masseria che la destra ha già tentato con il prof. Tremonti di demolire nel 2002. Fallita la grande riforma, ora la destra ci riprova con questa guerriglia fiscale che si ripeterà ogni anno sulle aliquote, le esenzioni, gli scaglioni e così via.

Retoricamente, è importante che il fasullo cantiere della riduzione dell’Irpef sia tenuto ben caldo per fare le eterne promesse. L’Irpef non è solo la tassa del Novecento ma è anche lo strumento fondamentale della democrazia economica. Senza l’imposta progressiva sul reddito torneremo agli anni Cinquanta, quando la sanità era a pagamento, la scuola superiore un miraggio per molti, le pensioni magrissime. La progressività dell’Irpef ha capovolto questo misero stato di cose e lo farà ancora egregiamente se non verrà demolita.

Qualcuno potrà gridare allo scandalo di una aliquota massima del 72%. Aliquota però che si applica, con valori attuali, a persone che percepiscono più di quattro milioni di euro. Spillare un po’ di soldi a grandi sportivi, imprenditori di successo o star della tv non è un furto ma semplicemente un fatto di democrazia. Lo era nel 1973 e lo potrebbe essere anche ora.

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