Per l’anno prossimo è fatta: le aliquote Irpef si ridurranno dalle quattro attuali a tre. I primi due scaglioni verranno accorpati e sui redditi fino a 28mila euro si pagherà il 23%. A tre giorni dalla fine dell’anno ha infatti ottenuto il via libera definitivo del consiglio dei ministri il decreto attuativo della delega fiscale che rivede l’imposizione sulle persone fisiche. Ma il difficile, per il governo Meloni, deve ancora arrivare: la misura è finanziata solo per il 2024, scelta singolare per una riforma che dovrebbe dare certezze ai contribuenti. Per evitare di fare dietrofront sull’Irpef e confermare anche il taglio del cuneo fiscale, che la premier considera un pilastro della politica economica del suo esecutivo, serviranno nel 2025 circa 15 miliardi. Quasi una mission impossible, dopo che la settimana scorsa i ministri dell’Economia dell’Unione europea, compreso Giancarlo Giorgetti, si sono accordati su una riforma del Patto di Stabilità, che impedirà ulteriori manovre in deficit. Roma si è legata le mani e Meloni, tra meno di un anno, dovrà fare una scelta dolorosa: spiegare agli elettori che le loro buste paga si alleggeriranno un po’ o trovare le coperture a colpi di forti tagli di spesa o aumenti di altre tasse.

La riforma a tempo – Il cuore del decreto approvato giovedì (dopo il rinvio in extremis del 19 dicembre) è appunto l’accorpamento dei primi due scaglioni Irpef: al momento sulle cifre tra 15 e 28mila euro si applica il 25%, mentre da gennaio anche quei redditi saranno soggetti a un’imposizione del 23%. Oltre i 28mila euro lordi non cambierà nulla: ai redditi compresi tra 28mila e 50mila euro continuerà ad applicarsi l’aliquota del 35%, oltre i 50mila quella del 43%. La riduzione del carico fiscale sarà decisamente ridotta. A chi non arriva a 15mila euro di reddito andranno pochi spiccioli grazie all’aumento da 1.880 a 1.955 euro della detrazione per lavoro dipendente. La soglia di no tax area – quella sotto la quale non paga Irpef – per i redditi di lavoro dipendente si amplierà quindi fino a 8.500 euro, raggiungendo quella in vigore per i redditi da pensione. Il vantaggio massimo, poco più di 21 euro al mese pari a 260 euro l’anno, andrà a chi guadagna oltre 30mila euro. Oltre i 50mila euro il vantaggio fiscale sarà in teoria neutralizzato da un taglio equivalente delle detrazioni. Proprio sulle detrazioni sono arrivate alcune modifiche last minute caldeggiate nei pareri delle commissioni parlamentari. Quelle per erogazioni liberali a Onlus, enti del terzo settore e iniziative umanitarie saranno escluse dal taglio, per evitare effetti negativi su una delle loro fonti di finanziamento. In bilico fino all’ultimo quelle a favore dei partiti politici: alla fine il governo ha stabilito che subiranno la decurtazione.

Con il nuovo Patto stop alla proroga in deficit – Sullo sfondo resta la grande incognita del rifinanziamento della riforma, che costa circa 4 miliardi in termini di mancato gettito, per l’anno successivo. Quando, in mancanza di nuove coperture, verrà meno anche la decontribuzione di 7 punti in vigore per chi ha una retribuzione lorda fino a 25mila euro e 6 punti per chi ne guadagna tra 25mila e 35mila lordi. Le due misure – che secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio nell’insieme vanno soprattutto a favore delle famiglie dei due quinti più ricchi – sono strettamente legate anche perché il lievissimo abbassamento del carico fiscale è chiamato a compensare, nelle intenzioni del viceministro con delega al fisco Maurizio Leo, l’effetto boomerang legato al taglio del cuneo: la riduzione dei contributi (che sono deducibili) fa sì che quei lavoratori paghino un po’ più tasse. Ha quindi senso immaginare che il governo intenda prorogarle entrambe. Ma se la manovra per il 2024 ha potuto tenere insieme tutto grazie al ricorso a ben 16 miliardi di deficit aggiuntivo, con il nuovo Patto quella strada è sbarrata.

L’Italia l’anno prossimo finirà infatti, come molti altri Paesi, in procedura di infrazione, e sarà di conseguenza tenuta per un triennio ad un aggiustamento pari allo 0,5% del pil ogni anno (probabilmente con uno sconto legato all’aumento degli interessi sul debito). Altro che scostamenti e misure in deficit. Subito dopo, avendo un debito ben superiore al 90% del pil, tornerà nel cosiddetto braccio preventivo del Patto e in base alle due “salvaguardie” ottenute dalla Germania dovrà portare l’indebitamento all’1,5% del prodotto e ridurre il debito dell’1% l’anno. Per farlo dovrà garantire già nel medio termine, stando ai calcoli del think tank Bruegel, un avanzo primario strutturale (la differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) del 3,3%, destinata poi a salire al 4,6%. Se la Commissione acconsentirà a un percorso di rientro su 7 anni, significa dover mettere a segno ogni anno una stretta fiscale di oltre 12 miliardi. Un contesto in cui garantire risparmi fiscali alle fasce medio basse diventa proibitivo, a meno di non riuscire a varare una spending review memorabile o colpire con decisione, per esempio, le grandi ricchezze o gli “extraprofitti”. Il governo dovrà scegliere come muoversi.

I dubbi sul nuovo adempimento collaborativo – Il pacchetto fiscale appena approvato comprende anche il decreto attuativo della nuova cooperative compliance – il regime di collaborazione con il fisco oggi riservato ai big – con le modifiche chieste dalle commissioni parlamentari. Tra le novità dell’ultimo minuto c’è un regalo ai consulenti del lavoro: anche loro avranno una fetta della grande torta della certificazione dei sistemi di gestione del rischio fiscale. Potranno infatti essere consultati, nelle materie di loro competenze, dagli avvocati e commercialisti chiamati a rilasciare il “bollino” necessario per poter aderire all’adempimento collaborativo con il fisco, che garantisce la non punibilità per il reato di dichiarazione infedele e la riduzione a un terzo delle sanzioni amministrative (a cui si applicherà anche un tetto massimo pari al minimo edittale). Da notare che il decreto attuativo non si limita a confermare un progressivo calo delle soglie di accesso per le grandi imprese, fino a 100 milioni di euro nel 2028, ma introduce anche un regime opzionale che sarà aperto alle imprese di qualsiasi dimensione purché “optino” per l’adozione di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale dandone comunicazione all’Agenzia delle entrate. Una formulazione che sembra far venir meno, in questi casi, il presidio ex post svolto oggi dal fisco sulla “ragionevolezza e proporzionalità” del sistema adottato dalle aziende.
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