“Pensiamo al rapporto tra cuneo fiscale e primo scaglione di reddito. Oggi se faccio il taglio del cuneo fiscale, che deve essere fatto ed è una priorità del governo, do più soldi in tasca al lavoratore dipendente, ma poi parte di quei soldi in più vengono mangiati dal carico fiscale della prima aliquota“. A distanza di sette mesi dal decreto che ha potenziato il taglio del cuneo contributivo per i lavoratori dipendenti varato da Draghi, il viceministro dell’Economia e delle finanze Maurizio Leo “scopre” che l’intervento che il governo Meloni punta a prorogare per tutto il 2024 con la legge di Bilancio – al costo di una decina di miliardi lordi – ha anche dei pesanti effetti distorsivi. Che andranno mitigati, dice, nell’ambito del ridisegno delle aliquote Irpef previsto dalla delega fiscale approvata dal Parlamento in agosto.

L’esponente di Fratelli d’Italia, parlando alla Festa nazionale di Italia Viva a Santa Marinella (Roma), ha spiegato che “bisogna fare un’operazione a tenaglia, ossia aumentare il primo scaglione di reddito per le fasce più basse” che attualmente prevede un’aliquota del 23% su redditi fino a 15mila euro. “Così c’è l’effetto benefico, altrimenti quello che do, in parte me lo riprendo sotto forma di tassazione“. Ovvero: per un reddito di 15mila euro, su 80 euro lordi di vantaggio una ventina vanno all’erario. Una beffa per i lavoratori a basso reddito, quelli colpiti più duramente dall’inflazione. Ma come è noto si tratta esattamente di quello che accade ora: non a caso il potenziamento dello sgravio, che Meloni aveva detto essere stato finanziato fino a fine anno con un “tesoretto da 4 miliardi”, in realtà ne è costato solo 2,9 perché il resto sono le maggiori imposte versate dagli stessi lavoratori per effetto della riduzione dei contributi (che sono deducibili).

Alzare la soglia di reddito tassata al 23% di per sé non cambierebbe molto, ma si potrebbe agire sulle detrazioni in modo da agevolare maggiormente chi guadagna meno. A dire il vero, però, il problema si pone in maniera anche più pressante per chi ha redditi un po’ più alti: il vantaggio del taglio del cuneo – al momento di 7 punti per chi guadagna fino a 25mila euro e 6 punti fino a 35mila – fa sempre salire la base imponibile e nei casi limite può addirittura comportare un salto di aliquota con notevole perdita netta per il lavoratore. Per non dire del fatto che oltre i 35mila euro di reddito lo sgravio si azzera senza décalage, per cui ogni aumento di stipendio diventa un boomerang: invece di mettere più soldi in tasca riduce il netto percepito dal dipendente. Problemi ben noti, appunto, ma che il viceministro sembra mettere a fuoco solo ora.

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