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Vincenzo Mollica: “A 7 anni ho saputo che sarei diventato cieco. Bastava che chiudessi l’occhio destro e precipitavo nel buio”

Il giornalista Vincenzo Mollica, 70 anni, ormai cieco, si racconta a cuore aperto in una lunga intervista al Corriere della Sera

di Simona Griggio

Mi manca il volto di mia moglie, i suoi occhi azzurri e il suo sorriso, mi manca il volto di Caterina e la sua luce”. A rivelarlo è il giornalista Vincenzo Mollica, 70 anni, ormai cieco, in una lunga intervista al Corriere della Sera. L’amore, la professione, i ricordi e il presente. Soprattutto la passione per la vita, con tutte le sue sorprese. Anche negative ma che possono determinare un approccio diverso e generare nuove gioie sfilano in un ritratto a tutto tondo. L’incontro di Vincenzo Mollica con la consapevolezza della malattia comincia così.

“Devo dirvi che vostro figlio diventerà cieco”. A rivelarlo è l’oculista ai genitori in uno studio. Ma lui, che allora era un bimbetto di sette anni appassionato di fumetti, ha origliato dalla sala d’attesa e ha sentito bene quelle parole. Non vede già più da un occhio: un giorno non vedrà più nemmeno dall’altro. E il mondo non gli apparirà più nei suoi colori e forme. Scomparirà dalla sua vista, potrà solo ricordarlo.“Bastava che chiudessi l’occhio destro e precipitavo nel buio”, racconta in una lunga intervista al Corriere della Sera.

Ma il suo non è un racconto di privazione di esperienze nella vita quotidiana per il progredire della malattia. Al contrario, è un viaggio in un mondo ricco di incontri, colori, stimoli, ricorsi. Sembra disegnato su misura: non più visibile agli occhi, è quasi un film. Ad avvisarlo che avrebbe potuto anche essere anche così, spiega Mollica, era stato Andrea Camilleri. Lo scrittore, che aveva vissuto il suo stesso problema, il glaucoma, un giorno gli dice: “Ricordati sempre di non perdere la memoria dei colori. I tuoi sogni, vedrai, saranno nitidi, vividi, come in tre dimensioni, le immaginazioni saranno forti, la tua memoria ti restituirà tutto come proiettato come su un grande schermo, con una nitidezza che tu non hai mai conosciuto”, gli aveva confidato. Il giornalista fa suo quel consiglio. Impara a esercitare la memoria di luoghi, persone, fatti incessantemente. Prima di precipitare anche con l’occhio sinistro nel buio.

Fin da allora ho adottato una tecnica. Ho mandato a memoria tutte le strade, tutte le stanze, tutti gli alberi. Li so, per averli visti. Per verificare chiudevo l’occhio destro e controllavo se la mia memoria aveva immagazzinato tutto. A Sanremo o a Venezia mi bastava uno sguardo per fare una panoramica di luoghi e persone”. Ma come riesce a scrivere, da giornalista? “Ho sempre scritto tutto a mano, ma negli ultimi anni non ho più potuto farlo – ammette – Così gli articoli ora me li compongo nella testa, come fosse un foglio bianco. Voglio sentire, in qualche modo vedere, le lettere che si assemblano: la forma austera della B, il carattere sbarazzino della T”. Confessa di essere sempre andato in giro con un bloc notes nella tasca. Pronto a scrivere al volo. Persino le frasi che la poetessa Alda Merini gli dettava chiamandolo all’improvviso: “Mi telefonava per dettarmi una delle sue poesie. E io dovevo essere pronto per trascriverla”. Ora potrebbe scrivere su quel foglio bianco immaginario e ricordarsi tutto senza bisogno di carta e penna.

Prima del giornalismo e della passione per raccontarle le storie, Vincenzo Mollica è stato un grande ascoltatore, spettatore, lettore: dai fumetti ai cartoon, dai capolavori del cinema ai romanzi. Avido di tutto. Aveva anche la passione per il disegno: passava ore chiuso nella sua stanzetta a disegnare.“Riempivo fogli e fogli con gli acquarelli. Volevo riprodurre la realtà, o la mia immagine della realtà. Cercavo il giusto rosso per le foglie d’acero in autunno e prediligevo l’Indian Yellow, che si trova in ogni cosa abbia disegnato. Era il predominante delle mie scelte cromatiche”, racconta.

Nato vicino a Modena e poi subito partito per il Canada, dove i suoi genitori, emigrando, raggiunto i loro familiari, Mollica ha fatto la prima elementare a Toronto. Poi è rientrato in Italia, in Calabria, a Motticella, vicino a Brancaleone, dove ha proseguito gli studi. Fino al trasferimento a Milano per studiare all’università Cattolica. Tante esperienze, tante mentalità. In tutto questo come nasce il giornalismo? “Avevo visto una serie di film americani sul mondo dei giornali. C’erano Clark Gable, Humphrey Bogart… Mi sembrava tutto meraviglioso. Fellini mi disse che a lui era successa la stessa cosa”, rivela al Corriere.

E specifica: “Non esistevano, allora, le facoltà di giornalismo. Si diceva che era utile studiare giurisprudenza. Lo feci. Fu un periodo di grande vitalità, erano anni così. Gianfranco Bettetini organizzava un cineclub in cui vidi i film della contestazione americana e le personali di Fellini e Visconti. Per fare qualche lira andavo a fare il figurante nelle trasmissioni Rai, mi dicevo da solo che ero diventato un “mercenario dell’applauso”.

Nasce l’amore per la futura moglie. L’incontro con Rosemarie, con cui Vincenzo condivide concerti, amicizie, eventi artistici e il fervore di quegli anni ‘70. “Era il 14 febbraio 1973 ed eravamo a un concerto di Giorgio Gaber. Giravamo a bordo di uno scooter arancione e con i soldi degli applausi ci compravamo succulenti panini con il wurstel e budini in una latteria di via Dante. Ho fatto il servizio d’ordine per Dario Fo alla Palazzina Liberty e, con Rosemarie, ascoltavamo nei club Enzo Jannacci e non perdevamo nessuna proiezione di un cineclub che faceva film d’essai”.

Dopo aver spiegato che è stato il fascino di Gable a ispirare in lui la curiosità per il mondo giornalistico ecco la vera motivazione: “In realtà io sono un grande ascoltatore di storie, non farei altro nella vita. Le cerco, le stano come uno speleologo e le fisso sulla carta, quando gli occhi me lo consentivano, ora nella mente”. E aggiunge una precisazione non da poco: “Non esistono mai due storie uguali al mondo”.

Anche la sua storia è unica e speciale. Basta citare questo ricordo sull’amicizia con Federico Fellini: “Quando andavamo insieme con le famiglie a pranzo fuori, Federico era affascinato da un nostro rituale, figlio di un lessico famigliare che comportava il fatto che mia figlia Caterina mangiasse solo se Rosemarie le raccontava una storia, anzi una fiaba”. Quale rituale? Federico si perdeva in questa scena e cominciava a disegnare i personaggi del racconto di mia moglie sui tovaglioli di carta. E così Caterina viveva in un cartone animato che si faceva all’istante con la voce di sua madre e i disegni di Federico Fellini”.

Il sogno di Vincenzo Mollica è sempre stato “riempire il mondo di colori”, rivela. E lo è anche oggi che li ha solo nella memoria. Però gli occhi azzurri e il sorriso della moglie, il volto della figlia Caterina e la sua luce vorrebbe di nuovo poterli guardare.

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