Il famelico ddl “Sicurezza” presentato dal governo in Parlamento è un termometro preciso di ciò su cui per questo governo di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) si debba picchiare più forte e la mafia non pare essere una priorità. Anzi. Per il governo è chiaro che si debba picchiare duro su occupanti di immobili, truffatori di anziani, manifestanti scalmanati e detenuti, ancor più duro bisogna picchiare sul terrorismo, mentre sarebbe non soltanto possibile ma anzi doveroso tirare il freno rispetto ai reiterati tentativi delle mafie di usare la Pubblica Amministrazione come una “lavatrice” di denaro sporco.

Ma prima di fare i due esempi che rappresentano in maniera plastica questa forbice tra il massimo ed il minimo dell’attenzione, bisogna fare una precisazione di carattere generale. Quando una certa condotta provoca la reazione dello Stato? Quando, secondo il Legislatore, offende in maniera insopportabile beni giuridicamente tutelati, cioè degni di essere protetti dall’ordinamento. L’offesa normalmente viene considerata tale quando compromette concretamente in tutto o in parte quel bene: il “furto” è tale quando Tizio sottrae a Caio l’automobile. Ma ci sono condotte che vengono ritenute offensive anche quando non hanno (ancora) compromesso in concreto un bene, ma rappresentano una minaccia tale da offendere una sorta di “meta-bene” (mi perdonino i cultori del diritto!) e cioè il bene grande della tranquillità ovvero l’assenza di pericoli.

Ecco che alcune condotte diventano addirittura “reati” per il pericolo che rappresentano, l’esempio tipico è quello del reato di “associazione mafiosa”, dove il Legislatore ritenne di punire con una sanzione penale la mera appartenenza al consorzio mafioso, senza che ci fosse l’esigenza ulteriore di provare la realizzazione di altre condotte, i così detti reati-fine. Certo, il Legislatore che prese questa decisione era quello del 1982 e ce la fece soltanto dopo gli omicidi di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Insomma, a seconda dei casi, la soglia della rilevanza può essere di molto anticipata, al momento del pericolo, scatenando provvedimenti sia amministrativi che penali oppure al contrario di molto posticipata, scatenando provvedimenti blandi.

Ed ora i due esempi.

Il massimo della anticipazione. L’art. 1 del ddl “Sicurezza” prevede che sia reato punibile con la pena da due a sei anni il possesso di materiale utile ad assemblare armi che se costruite, possano servire ad attività terroristiche. La norma sarà sicuramente ispirata ai migliori intenti di prevenzione e repressione del terrorismo, soprattutto di matrice internazionale e troverà certamente adeguati bilanciamenti probatori nel processo, però non ho potuto non pensare a quella canzone di Caparezza nella quale veniva cantato un futuro distopico dove era diventato reato avere le tasche dei pantaloni, perché lo Stato temeva che nelle tasche, per il solo fatto di esistere, potessero nascondersi strumenti sovversivi.

Il massimo della posticipazione. All’art. 3 invece il ddl Sicurezza prevede che nel caso dell’applicazione di una interdittiva antimafia da parte del Prefetto, il prefetto possa valutare l’impatto economico della medesima interdittiva sui bilanci famigliari dell’interdetto e qualora lo ritenga troppo deprimente, possa disapplicare le medesime interdizioni optando per un più blando controllo amministrativo temporaneo. Ricordo a me stesso che l’interdittiva antimafia prefettizia nasce per ridurre il pericolo per la Pubblica Amministrazione di fare affari con soggetti economici che potrebbero essere veicoli di interessi mafiosi e che proprio per questo le interdittive antimafia non possono che avere un impatto deprimente sui bilanci famigliari dell’interdetto.

Con una norma del genere è facile immaginare quale sarà la piega applicativa che verrà presa: meno interdittive e più controllo amministrativo temporaneo (strumento molto più facilmente aggirabile dai malacarne veri ed invece comunque afflittivo per i malcapitati di buona fede). Il messaggio rischia di essere ancora una volta devastante: non sono i mafiosi il nostro problema, che facciano pure gli affari che vogliono, basta che se ne stiano calmi.

Certo non può essere taciuto che questa norma di “alleggerimento” rispetto alle misure di prevenzione antimafia sia figlia di una sentenza della Corte Costituzionale (la 180 del 2022), che aveva stigmatizzato la irragionevole diversità tra il potere del giudice penale di apprezzare nel merito le conseguenza di certi provvedimenti e l’assenza di un equivalente potere in capo al Prefetto, rimandando però giustamente al Legislatore la quadratura del cerchio, avendo ben chiaro la Corte che la natura stessa delle misure di prevenzione patrimoniali è, appunto, economica.

Così come, ancora una volta, non posso tacere la complessità della materia: l’utilizzo delle misure di prevenzione patrimoniali, soprattutto quelle che derivano dalle “informative” prefettizie, infatti evoca quel potere sicuramente invasivo dello Stato di intervenire secondo il principio di precauzione a prescindere dall’accertamento in sede penale di un reato commesso. Potere che per alcuni dovrebbe essere radicalmente neutralizzato perché incivile (attendiamo la Cedu sulla vicenda Cavallotti). Neutralizzato in generale? No, per carità: in molti campi il potere dello Stato di agire in prevenzione viene giustamente preteso a gran voce, pensiamo alla violenza di genere.

Quando invece si parla di mafia pare che la fatidica “soglia” della rilevanza, amministrativa in questo caso ma il discorso non sarebbe molto diverso se considerassimo il piano penale (ricordiamo le intenzioni di Nordio sul reato di concorso esterno), possa ormai essere spinta sempre più in basso. Con buona pace della DIA e della DNAA che mettono continuamente in evidenza la mole di denaro di cui le organizzazioni mafiose dispongono soprattutto grazie al narcotraffico e che necessita di essere ri-pulito, anche attraverso il ciclo dei contratti pubblici. Ma in fondo, la mafia è cosa nostra. Sic transit gloria immundi.

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