Si dice che non si finisca mai davvero di scrivere un libro ma che, ad un certo punto, si decida semplicemente di “lasciarlo andare”. Questo è particolarmente vero per Piccolo manuale per grandi rivoluzioni firmato dal giornalista de ilfattoquotidiano.it Mauro Del Corno ed edito da Guerini e Associati porta in libreria (e in formato e-book) da oggi, venerdì 17 novembre. Il libro apre un cantiere in cui si “lavorano” diversi temi, spesso trattati su questo giornale online, cercando di collocarli in un quadro interpretativo coerente. Si parla delle incredibili ingiustizie e distorsioni che il sistema capitalistico, specie di stampo neoliberista, inesorabilmente genera e di come, per effetto di una sorta di azione narcotica, queste vengano ormai accettate come qualcosa di normale ed immutabile.

Dei “trucchi” per far sparire migliaia di miliardi di dollari sottraendoli alla collettività. Si parla del gigantesco apparato culturale e propagandistico, perennemente al lavoro per manipolare l’opinione pubblica ed aumentare la devozione al “dio mercato”. E dell’ipocrisia delle élite quando si parla di meritocrazia, scuola, uguaglianza etc. Si parla, ancora, della crisi climatica in cui siamo precipitati e di come sia impossibile gestirla senza un radicale mutamento dei paradigmi economici. Sono pagine di denuncia, a tratti di sconforto, ma anche di speranza e di volontà di lottare con un’ incrollabile fiducia nelle potenzialità dell’uomo. Il libro è infine un tentativo di costruire un ponte tra generazioni, recuperando strumenti e linguaggi del passato indispensabili per plasmare il domani.

Qui di seguito ilfattoquotidiano.it anticipa un estratto del primo capitolo.

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Capitolo Uno – Voi siete qui

L’uomo ragionevole si adatta al mondo, quello irragionevole insiste nel cercare di adattare il mondo a sé. Perciò tutti i progressi dipendono dall’uomo irragionevole. (G. B. Shaw, Manuale del rivoluzionario)

Chi può smuovere i turbini del fuoco furibondo più di noi e di quelli che sentiamo fratelli? (A. Rimbaud)

…che vincere o essere vinto sono facce di un Caso indifferente che non c’è altra virtù che essere valorosi. (L. Borges)

Nel 1989 è caduto un muro e se ne è alzato un altro. E da allora, qui dentro, tutto si svolge e si esaurisce. A Est un orizzonte finalmente si apriva ma a Ovest si chiudeva. Abbiamo perso la capacità di pensare «altro». Quel pensare specifico era sbagliato, all’atto pratico la teoria si è dimostrata impercorribile e foriera di disastri. Ma qui si fa una constatazione, non si esprime un rimpianto. Non è questo né il punto né l’argomento del libro. Possiamo anzi concordare che il sistema capitalista, pur tra terribili ingiustizie, si sia rivelato sinora il «meno peggio», almeno per una parte del mondo. Ciò di cui discutiamo è il totale smarrimento di percorsi alternativi. Qualche sentierino, forse, al più. Condizione che genera una passiva accettazione di ciò che viene dato. Il discorso è diventato un monologo e si limita alla convalida generalizzata dell’attuale organizzazione delle cose. Il modello economico prevalente è divenuto un destino da accettare passivamente, nonostante le conseguenze negative.

Nel più classico esempio di senso comune dominante gramsciano, le eccezioni sono “roba da matti”. I sistemi socialisti hanno fatto male a chi li abitava e viveva, bene ai lavoratori dell’Ovest. L’esistenza di un altro mondo, unito a fattori più estemporanei, ha rappresentato la grande leva contrattuale per spostare, almeno un poco, gli equilibri della ricchezza verso le classi più deboli. Il collasso di quel mondo, oltre a ridurre la forza dei lavoratori nella definizione degli equilibri della distribuzione di risorse e ricchezze, ha dato di che vivere di rendita sino a oggi a un perbenismo politicamente corretto che, di fronte al grossolano ragionamento secondo cui non vi sono alternative, ha accettato, giustificato o ignorato qualsiasi malefatta del sistema dominante unico.

Lo sgretolarsi dell’«Alternativa» è nefasto per lo stesso capitalismo, viene meno uno sprone a riformarsi e correggersi. È con lotte e sacrifici che sono nati sistemi di welfare e di tutela, diritti di operai e impiegati e argini al loro sfruttamento. Dai limiti agli orari, alla salubrità dei luoghi di lavoro, tutto è stato ottenuto con la lotta e i sacrifici delle classi lavoratrici per essere incorporato in leggi coercitive dello stato. Unico modo per fare in modo che le imprese vi si conformassero. Nulla è stato concesso se non per calcoli di tornaconto. La polarizzazione delle ricchezze, l’allargamento delle diseguaglianze, è connaturato al sistema capitalistico ed è inevitabile se non ci sono forze esterne in grado di contrastarla. La Gran

Bretagna del 1800, con le terribili condizioni di lavoro imposte anche ai bambini, ci appare come qualcosa di remoto e superato. La dimostrazione che il sistema ha saputo portare un diffuso miglioramento delle condizioni di tutti, lavoratori inclusi. Tuttavia, se ci spostiamo in Asia, nei paesi di più fresca industrializzazione, o se guardiamo alle categorie di lavoratori più vulnerabili come i braccianti agricoli o i fattorini, vediamo che le condizioni non sono poi così migliorate, nonostante i progressi tecnologici intervenuti nel frattempo.

“I lavoratori erano stati ammucchiati insieme in nuovi luoghi di desolazione, le cosiddette città industriali dell’Inghilterra; la gente di campagna era stata disumanizzata e trasformata in abitanti di slums”, anche con queste parole Karl Polanyi raccontava la prima rivoluzione industriale. Basterebbe cambiare la parola Inghilterra con Cina per renderla una descrizione dell’oggi. In Congo donne e bambini estraggono a mani nude dalle miniere il cobalto, usato per costruire prodotti venduti per lo più nei paesi ricchi. Senza arrivare a tali estremi, in Occidente la dittatura degli algoritmi, e dei sistemi di cronometraggio delle mansioni alla catena di montaggio, succhiano fino all’ultimo “atomo di tempo” dai lavoratori. Nel 2023, nello stato americano dell’Arkansas è stata presentata una proposta di legge per dare la possibilità alle aziende di assumere giovani a partire dai 14 anni, senza che sia necessario il consenso dei genitori. Nello Iowa è entrata in vigore la legge che permette di far lavorare ragazzini quattordicenni negli impianti di refrigerazione della carne e mettere quindicenni alle catene di montaggio. In Nebraska è in discussione la possibilità di pagare i giovani con stipendi al di sotto delle retribuzioni minime. Mentre le temperature medie aumentano, in Texas è stata revocata la legge che disponeva l’obbligo di pause ogni quattro ore per dipendenti che lavorano al caldo, come muratori che costruiscono all’aperto.

“Piccole” cose ma emblematiche di come ciò che è stato possa tornare a essere com’era. Quello che si definisce periodo keynesiano può essere considerato l’epoca d’oro dell’equità sociale. Guardato da qui e ora sembra però più un accidente della storia che una possibile e, almeno socialmente, sostenibile versione del capitalismo. La temporanea disponibilità del capitale a scendere a patti con i lavoratori in cambio di pace sociale che caratterizzò quegli anni è il frutto di condizioni geopolitiche particolari e forse irripetibili. L’adesione alle dottrine dell’economista inglese è probabilmente conseguenza, più che causa. dei cambiamenti che si verificarono nei sistemi economici occidentali del dopoguerra. Tra queste, la necessità di tacitare il canto delle sirene che da Est accarezzava le orecchie dei lavoratori occidentali. Oggi sono all’opera fattori demografici globali (invecchiamento e minore disponibilità di «carne fresca» a basso costo) che potrebbero restituire un po’ di vigore ai lavoratori. Ma non è affatto scontato, l’automazione potrebbe, per esempio, offuscare questo ipotetico vantaggio. Ed è inutile farsi troppe illusioni, tutto quello che è stato conquistato in passato è a rischio, può essere sottratto e va difeso. Dalla scuola alla sanità, dalle pensioni alle ferie retribuite.

Il futuro appare per tutti sempre più precario, incerto. Se non si parla più di lotta e di conflitto, lotta e conflitto spariscono. Ma lotta e conflitto ci sono, bisogna schierarsi, far credere che non ci siano servi a chi domina. Il vero e ultimo presidio a tutela di diritti e tempi di vita siamo noi. Tutto quello che appartiene alle persone che lavorano è stato conquistato

con impegno, determinazione, sacrifici e solidarietà. Mai alcuna gentile concessione. Quella per accaparrarsi più ricchezza possibile è una lotta senza pietà che, se si gioca, va giocata fino in fondo. Non per colpa del fatto che i capitalisti siano particolarmente cattivi (e a volte lo sono) ma perché queste sono le regole del gioco a cui si gioca. L’ultima manifestazione ideologica di questo stato di cose è il pensiero neoliberista. Ma queste dinamiche sono connaturate al capitalismo, in tutte le sue declinazioni. Il neoliberismo, un pensiero piuttosto debole, è semplicemente una piena e a-critica accettazione delle logiche di mercato e dei rapporti di forza che implicano, con il proposito di estenderla a quanti più ambiti possibili. Un paradigma economico può ritenersi affermato e dominante quando anche i suoi oppositori cominciano a guardare il mondo con le sue lenti. Possiamo dire che questo è il caso, come mostra anche lo sbandamento esistenziale dei partiti che ancora si definiscono di sinistra.

Non a caso alla domanda su quale fosse stato il suo maggiore successo, la vestale della nuova ideologia Margaret Thatcher rispondeva “Tony Blair”. Se è vero che una classe dominante può dirsi tale solo se in grado di irradiare la sua ideologia a tutti gli strati sociali, anche verso le classi dominati che hanno in realtà interessi differenti, siamo, a quanto pare, in presenza di un dominio ben saldo e consolidato. Tempo fa un alto dirigente di Google disse che a un certo punto internet sarebbe sparita perché in realtà sarebbe stata ovunque. Ciò che in effetti sta accadendo. Lo stesso si può dire del mercato e delle sue logiche. Riferendosi ai suoi studenti, il sociologo dell’università La Sapienza di Roma, Giulio Moini scrive nel suo libro Liberismo: “Hanno nella maggior parte acquisito in modo inconsapevole un habitus neoliberista, in virtù del quale i valori e le pratiche di questo complesso insieme di pensiero si sono destoricizzati e sono diventati per molti versi indiscutibili. Un habitus che ha reso la società della prestazione un dato di natura. La precarizzazione dei rapporti di lavoro, la competizione, l’atomismo sociale, la riduzione dei sistemi di protezione sociale e molti altri fenomeni direttamente o indirettamente legati al primato del paradigma neoliberista, sembrano assoluti astorici. Un dato di natura insomma”.

Non che i più adulti se la passino molto meglio ma hanno almeno una martoriata memoria di un pensare altro che i più giovani non hanno sperimentato. Assistiamo a una desertificazione delle alternative, si ragiona al massimo su gra dazioni. D’accordo, i paesi scandinavi sono differenti dagli Stati Uniti, ma sono mondi diversi di uno stesso universo che sembra, con avanguardie e ritardatari, muoversi nella stessa direzione. E dal nostro punto di vista poco importa che la versione base venga sostituita da declinazioni più muscolari e populiste, incarnate da personaggi come Donald Trump. Per pensare altro mancano persino le parole. Lotta di classe, capitale, sfruttamento, gettate negli scantinati della storia ma di cui sarebbe opportuno riappropria

rsi. Chi mette in discussione l’ordine delle parole critica l’ordine delle cose. Come ricorda il filosofo del linguaggio Ludwing Wittgenstein “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Come ricordava Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere: «Il linguaggio è un insieme di nozioni e concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto […] in cui è contenuta una determinata concezione del mondo”.

A rifletterci, il neoliberismo è una ben triste visione e filosofia di vita. Limitata e sulla soglia del claustrofobico. Davvero non possiamo aspirare, e non siamo in grado di concepire, nulla di meglio di questo tetro e violento modo di stare al mondo? Sono tante le cose che potrebbero essere almeno smussate o aggiustate, se ci fosse la volontà di farlo. Prima ancora se ci fosse la consapevolezza di quel che accade e come. Ci stiamo invece abituando e rassegnando a convivere con storture sociali drammatiche, a volte oscene. Siamo convinti che sia il normale e inevitabile modo di funzionare delle cose. Diseguaglianze esasperate, folli regimi fiscali, totale libertà e impunità per le più spregiudicate attività finanziarie, apparati informativi e scolastici che perseguono un’ “educata umiliazione” di chi è solo meno fortunato, sistemi sociali strutturati per generare una profonda alienazione e atomizzazione degli individui. Di fronte a sfacciate ingiustizie di cui abbiamo quotidianamente conoscenza può sorprendere il livello di passiva accettazione raggiunto, l’assenza di reazioni significative. Di fronte a questa sensazione di impotenza e incapacità di agire sulle cose, Lukács parlò di uno «stato di permanente disperazione per l’andamento del mondo».

“Un’intera generazione si trova, specie in Occidente, a vivere un’esistenza precaria proprio a causa dell’eclissi del futuro, che spinge a una rassegnazione senza desideri perché sa che molto probabilmente non otterrà nulla, perché vive un esilio interiore, perché dimentica la speranza ed è intimamente convinta che sottovivere costituisce la maniera più semplice di sopravvivere. Il non riuscire a individuare i contorni del futuro retroagisce, quindi, sul presente producendo demotivazione e disimpegno», scrive il filosofo Remo Bodei in Passione del presente deficit di futuro. Tornano alla mente per contrapposizione alcune parole del socialista Salvador Allende presidente cileno assassinato durante il colpo di stato del 1973. “Come possono le persone, ed i giovani in particolare, sviluppare un senso di missione che susciti in loro una nuova gioia di vivere e dia dignità alla loro esistenza? Non c’è altra via che quella di dedicarci alla realizzazione di grandi compiti impersonali, come quello di raggiungere una nuova tappa nella condizione umana, fino ad ora degradata dalla sua divisione in privilegiati e diseredati. […]Qui e ora in Cile e in America Latina, abbiamo la possibilità e il dove re di sprigionare energie creative, in particolare quelle giovanili, in missioni che ci ispirano più di qualsiasi altra in passato. È attraverso le società che il singolo fa parte del genere umano. E la solitudine, quella vera, è per gli animali o per gli dei, ricorda Aristotele.

Il filosofo nota anche che schiavo colui che NON ha legami, non ha un suo posto, si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero ha invece molti legami e molti obblighi e verso gli altri e il luogo in cui vive. Dove i legami sociali sono ricchi migliora un po’ tutto. Le frodi fiscali diminuiscono, la salute aumenta. Il semplice fatto di aderire a un’associazione diminuisce della metà le probabilità di un decesso nell’anno successivo (…)

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