Le riforme scolastiche del centro-destra sono state un disastro più o meno grande per la scuola superiore italiana, un fallimento didattico, educativo e finanziario. In particolare, con la riforma Moratti del 2003 iniziava la separazione, cara ad una certa destra, tra scuola del sapere e suola del fare, ma nella prima erano compresi anche gli istituti tecnici. Quella successiva, la Gelmini del 2008, operava un taglio di 8 miliardi, il più grande taglio alla spesa dell’istruzione mai fatto nella storia della repubblica. Ora è il turno del prof. di diritto romano, Giuseppe Valditara, che propone una riforma, come al solito epocale, per tutto il segmento tecnico-professionale.

La destra però ha cambiato nel frattempo paradigma di riferimento. Mentre Moratti voleva trasformare in licei gli istituti tecnici, Valditara segue la direzione opposta di avvicinarli all’esperienza pratica delle scuole professionali, nella maggior parte regionali. Sarà l’ennesima sciagura per studenti, docenti e famiglie? Purtroppo, pare di sì.

Intanto c’è molta confusione sul campo. Il termine istruzione tecnico-professionale è una invenzione giornalistica, utile per semplificare. Il nostro sistema scolastico distingue nettamente l’istruzione professionale, prima di tre anni e poi portata a cinque, da quella tecnica che pari non è, anche se si conclude con 5 anni di studio. La formazione professionale, in gran parte in mano alle Regioni, si conclude con l’acquisizione di una semplice qualifica professionale e non consente di accedere agli albi professionali, cosa riservata ai diplomati degli istituti tecnici, cioè ai geometri, ragionieri, periti industriali e così via. Ora il ministro vorrebbe fare di tutta un’erba un fascio con una operazione politicamente molto discutibile. Per dare un’idea dei numeri in gioco, la formazione professione è scelta dal 18% delle famiglie italiane e quella tecnica dal 35%.

Partiamo da un punto che giudico positivo della nuova riforma e poi vediamo quelli molto negativi che mi fanno pensare che il ministro non conosca per nulla la scuola superiore italiana. L’aspetto positivo è la riduzione di un anno del percorso di studi. Questo è anche il modello europeo. Soprattutto per quanto riguarda la formazione professionale, portare ragazzi e ragazze che scelgono la scuola per il lavoro a 19 anni non è stata una grande idea. Detto questo, l’aspetto molto negativo è che l’intenzione del ministro è solo quella di creare un’autostrada per gli ITS (Istituti Tecnologici Superiori), corsi biennali professionalizzanti para-universitari ma finora stagnanti. Sugli ITS Academy, su come siano una creatura ambigua ed ibrida, sono già intervenuto su questo blog. Si tratta della piccola università di Confindustria, da qui il termine Academy all’americana, che attualmente riguarda appena 20.000 studenti in tutta Italia con un costo annuale per lo stato di 15.000 euro per studente, con costi variabili a carico del corsista. Un progetto caro alle imprese ma che non è mai decollato finora. È chiaro infatti che il diplomato sceglie di norma un percorso universitario. E qui è intervenuta l’astuzia maligna del ministro: togliendo un anno alla formazione professionale, ma soprattutto a quella tecnica, si aprirebbero inedite prospettive per l’università pratica di Confindustria, con tanto di esperti e formatori da essa forniti.

La riforma ha tre grandi punti critici, nascosti dietro una verbosa narrazione retorica sulla necessità delle imprese, sulla internazionalizzazione e i blablabla vari. Nel marketing fumogeno gli imprenditori non sono secondi a nessuno. Il primo è che gli attuali istituti tecnici verrebbero fortemente sviliti, perdendo l’ultimo anno che è quello più rivolto alle materie specifiche dell’attività professionale. Come conseguenza naturale, si renderà quasi inevitabile il proseguimento negli ITS. Un po’ come è accaduto all’università con il 3+2. La laurea vera doveva essere quella triennale, e invece si è verificato l’opposto e il percorso universitario, invece di accorciarsi, si è allungato. Avremo allora un percorso tecnico-professionale 4+2, più lungo di quello di prima. Ma almeno più qualificato?

Qui c’è un secondo motivo di critica. Il ministro punta su di un’ampia collaborazione con le imprese, già esistente peraltro. I docenti laureati verranno sostituiti da formatori e rappresentanti delle imprese. Per esempio, negli ITS la legge prevede che il 60% della docenza debba provenire dal mondo dei privati e delle imprese. Si realizzerebbe così un’inedita e dannosa privatizzazione della scuola che porterà ad un selvaggio mercato dei formatori, popolato di consulenti, divulgatori, esperti e così via, ognuno dei quali punterebbe alla sua fettina di torta. Ma le imprese contribuiranno almeno economicamente alla grande riforma di cui godranno i benefici? Pare di no e i costi ricadranno come al solito sui corsisti oppure sulle casse pubbliche.

E qui abbiamo il terzo motivo. La riforma dovrà essere secondo il ministro a costo zero. Ma allora, con quali soldi si pagheranno i formatori che saranno chiamati dalle scuole dell’autonomia a far la loro lezione magistrale? Se il governo non ha le risorse (ma per gli ITS sono stati stanziati a suo tempo già 1,5 miliardi), non faccia una riforma così impegnativa, altrimenti rischia di essere accusato di incompetenza o di ipocrisia. Peggio ancora, pagheranno come al solito le famiglie di tasca loro. Poi ci sono molte altri aspetti minori, perfino ridicoli, per chi vive concretamente la scuola professionale. Si parla di creare dei campus della formazione tecnico-professionale, di grandi accordi a livello regionale, di certificare le competenze in maniera puntuale e continuativa e così via. Tutte cose che appartengono ad una fantascuola che esiste solo nelle audaci fantasie ministeriali.

Mi pongo, da ex insegnante in un istituto tecnico, una domanda: perché si vuole distruggere la formazione tecnica di qualità, che comunque l’istruzione italiana produce, per far posto agli ITS guidati dalle imprese italiane che nella formazione e nell’innovazione mi pare non primeggino? Siamo sicuri che questa sia la direzione di marcia utile per la scuola ma soprattutto per l’economia italiana? Scuola ed industria devono certo collaborare, senza snaturare però il loro ruolo. Non sarà l’impresa a salvare la formazione professionale e tecnica italiana, ma per gli imprenditori sarà di sicuro una nuova ed inedita occasione di business a basso rischio e alto rendimento. Almeno su questo la destra di una volta aveva le idee chiare. Lancio un appello alle persone di buona volontà, di destra e di sinistra: salviamo gli istituti tecnici dalla riforma Valditara. Sui professionali, il dibattito è aperto ma non facciamo confusione come il nostro ministro.

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