Adesso faranno da soli, come nel racconto che avevo sentito da un vecchio squadrista, capo di una Disperata milanese nel ’21, durante una spedizione punitiva, a un avvocato socialista gli avevano fatto l’olio di ricino, e siccome la moglie era piuttosto bella l’han fatta fuori davanti a lui, mi aveva colpito di quel racconto l’orlo della camicia da notte che gli era rimasto nel pugno mentre lei urlava da un capo all’altro della stanza, il marito che vomitava in cucina, e loro che ridevano coi manganelli appoggiati sul letto, non l’hai mai assaggiato, vero, da una camicia nera? sentirai che tarello, una violenza quasi allegra… una forza pazzesca, questa puttana comunista, ma così non ce la farete, devo dirgli, se prima non la massacrate.

Cinico, oppositivo ai falsi moralismi, sostenuto da un veloce ed efficace ritmo narrativo, Notti e nebbie di Carlo Castellaneta (Interlinea edizioni) è, dal mio punto di vista, uno dei migliori romanzi che abbia letto sulla disfatta fascista. Ambientato a Milano tra l’autunno del 1944 e l’aprile del 1945, il testo vede protagonista un anonimo, squallido funzionario della polizia politica alle prese con l’adesione a un ideale ormai morente, il bisogno disperato di fottere per darsi uno scopo (anche politico) e la caccia a partigiani e potenziali sabotatori in una città buia e nebbiosa come il momento storico che sta vivendo. Tra repubblichini di Salò, burocrati pronti a scappare in Svizzera, torturatori specializzati in lugubri ville in zona San Siro, caftani da donne di strada e valige di cartone, il protagonista si muove in una geografia cittadina dell’orrore e della voluta perversione, difendendo un valore ideologico fino in fondo, anche oltre il limite consentito dall’umanità.

E qui sta, io credo, il grande merito di Castellaneta: far muovere la narrazione attraverso le azioni e i pensieri di un uomo orribile, per cui mai si parteggia, anzi, si spera, pagina dopo pagina, che possa morire, e morire male. Uno spostare sempre più in là la climax, fino a costruire una struttura narrativa pressoché perfetta capace di gettare uno sguardo attento sulla Storia e su Milano. La speranza è che Interlinea continui la pubblicazione dei romanzi dell’autore meneghino, magari con La Paloma (della quale Notti e nebbie è una specie di antefatto), ancora Milano, fine anni ’60, l’anarchico Pinelli negli ultimi mesi della sua vita, l’omicidio, la defenestrazione, le stragi di Stato. la banalità del Male nei palazzi di potere e tra i borbottii dei questurini, fascisti, in fondo, fino al midollo.

Siamo stati travolti, eppure qualcosa mi dice che non è finita, che la nostra idea, la nostra natura continuerà a sopravvivere. Perché i vincitori, i nuovi padroni presto avranno bisogno di me. Finché l’uomo sarà fatto della stessa merda.

Il Bar degli zanza, di Tino Adamo (Unicopli) è un libro che mi ha ricordato Lo Sbarbato, di Umberto Simonetta (Baldini+Castoldi). Se in quest ultimo il Bar Torretti serve per raccontare via Torino e la zona Missori del Miracolo Economico, ne Il Bar degli zanza protagonista assoluta diventa Baggio. Una sorta di autobiografia romanzata, una verosimiglianza da hinterland che si porta con sé le espressioni colloquiali e il dialetto (anzi, i dialetti) della periferia, in un micromondo di zanza, di fannulloni perdigiorno, agli antipodi della produttività a tratti futuristica del milanese medio.

Alcolizzati, giocatori di poker, perdenti cronici, borderline dalla rissa facile, extracomunitari ante litteram: Tino Adamo ricrea una fauna godibile, grottesca e vera, riuscendo a catapultare il lettore in quella che fu Baggio un tempo. Un romanzo antropologico dal basso. Una mappatura, riuscita, di un quartiere e di un’epoca.

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