“«Ascolta, Mahdi. In vita mia ne ho passate di cotte e di crude e so che prima o poi mi capiterà qualche disgrazia. Ma non è questo l’importante. Tu hai sedici anni. Oggi ti insegnerò a essere un leone. Questa vita è una stronzata. Se muori oggi o tra trent’anni, non fa alcuna differenza. L’importante è l’oggi, è riuscire a vedere la paura negli occhi degli altri. Sono quelli impauriti che ti daranno tutto. E se uno ti dice, per esempio, “temi il Signore” oppure “è peccato”, dagli un calcio in culo, perché ’sto Dio è degli stronzi. È loro, non tuo. Dio sei tu, ora è il tuo momento. Non c’è Dio senza fedeli o piagnucoloni che muoiono di fame e sopportano qualunque cosa in suo nome. In questo mondo, tu devi imparare a essere Dio. Solo così la gente ti leccherà il culo mentre le caghi in gola. Oggi verrai con me, ma devi tenere la bocca chiusa. Non una parola, zitto e muto come una pecorella. Capito, coglione?»”

Già dopo avevo letto Il matto di piazza della Libertà (traduzione di Barbara Teresi, Editrice Il Sirente) ero rimasto impressionato dalla capacità narrativa di Hassan Blasim, ma con Il Cristo iracheno e Allah 99 (anche questi tradotti da Barbara Teresi e entrambi pubblicati da Utopia Editore), le quotazioni dell’autore iracheno si sono ulteriormente alzate. Si tratta di testi che navigano nell’angoscia, nell’orrore e nella surreale follia di un Paese dilaniato dalla guerra e dalla miseria, che raccolgono i frammenti della memoria degli esiliati, di coloro che sono fuggiti, loro malgrado, davanti alla morte, la distruzione, la stupidità bellica.

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Il Cristo iracheno è formato da autentiche perle che compongono un ritratto spietato dell’Iraq contemporaneo e del fasullo paradiso rappresentato dalla ricca Europa. Kamikaze improvvisati, esperti nazionali di cruciverba, anime di poliziotti morti che si impossessano dei corpi dei sopravvissuti a dilanianti attentati, adolescenti che diventano uomini grazie all’omicidio, malati terminali che si defenestrano da soli, club di amici capaci di far scomparire coltelli… attraverso metafore surreali e grottesche Hassan Blasim getta l’immaginazione in faccia alla realtà, la fa diventare simbolo delle carneficine e dei macelli iracheni. Disincantato, a tratti ironico, spietato e con un pizzico di nostalgia per quella che fu Baghdad e, in generale, la vita passata nel proprio luogo d’origine, Il Cristo iracheno è, a mio avviso, un capolavoro, da leggere obbligatoriamente per cercare di capire ciò che è stato fatto in nome della libertà (di stampo occidentale), per comprendere che il bene e il male non sono concetti a compartimenti stagni.

“Quando ci svegliammo il giorno dopo, le truppe americane erano alle porte di Baghdad. Di lì a qualche ora fu abbattuta la statua del dittatore. Fu un trauma surreale. Indossammo gli abiti civili e tornammo dalle nostre famiglie. Era stata soltanto un’altra guerra da ciechi. Nessuno del nostro battaglione aveva sparato un solo colpo. Dopo la guerra, ho incontrato Daniel diverse volte. Era tornato a vivere con la sua anziana madre. Quando il paese è precipitato nel caos, sono andato a trovarlo nella loro casa di Baghdad. Volevo proporgli di tornare insieme a me nell’esercito. Mi disse che odiava il dittatore, ma che non avrebbe ingrossato le file di un esercito sotto l’egida dell’occupante. Dopo quella volta non ci siamo più visti. Io mi sono arruolato di nuovo, e Daniel ha continuato a occuparsi di sua madre.”

In Allah 99, invece, Blasim raccoglie novantanove interviste (novantanove è il numero degli appellativi che nel Corano vengono attribuiti ad Allah) a uomini e donne segnati dal terrorismo, la guerra e l’emigrazione. Dottoresse che dopo essere diventate vedove a seguito di un attentato scappano a Berlino e si dedicano alla musica techno, panettieri che realizzano maschere per le vittime di attentati terroristici, giovani jihadisti nascosti nella bucolica Scandinavia, enigmatiche traduttrici di Cioran alle prese con filosofia e embarghi.

Violenza, razzismo, sesso promiscuo, sbronze notturne, corpi martoriati, orrore e profonde riflessioni sulla letteratura, la vita e la sopravvivenza in un mondo nuovo, non sempre migliore di quello che ci si è lasciati alle spalle.

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L’identità di Hassan è in esilio umanitario: la guerra prima e i documenti poi l’hanno tradita

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