È la notizia del giorno: la Regione Lazio ha negato il patrocinio al Roma Pride. Non dovrebbe suscitare alcuna sorpresa che l’estrema destra, tradizionalmente ostile alle rivendicazioni della comunità Lgbt+ (per non dire nemica), si tiri indietro rispetto a una misura di buon senso e di civiltà istituzionale: far sentire a casa loro anche le persone rappresentate dall’arcobaleno.

Non parlo solo di gay, lesbiche, persone trans e tutto l’arco della sigla in questione. Immagino anche quelle centinaia di migliaia di famiglie (non so se è giunta la notizia a destra, ma nasciamo da genitori etero) e di allies – chi pur non essendo Lgbt+ scende in piazza per i diritti di tuttə – che manifestano per una società più giusta, accogliente e democratica. A tutta questa gente la Regione ha detto, con tale atto, che non sono a casa loro, in Lazio.

Va da sé: la proposta politica incarnata da Giorgia Meloni e dai suoi sergenti non può sposare lo spirito del Roma Pride. Risibili, tuttavia, sono le modalità e le motivazioni del diniego. Se prima dai il patrocinio e poi lo togli, dimostri – nella migliore delle ipotesi – che grande è la (tua) confusione sotto il cielo. E se non si sa gestire il sì a una manifestazione politica, mi chiedo come si possa governare la complessità di una regione cruciale come quella della Capitale.

Sulle motivazioni, riporto: “La firma istituzionale della Regione Lazio non può, né potrà mai, essere utilizzata a sostegno di manifestazioni volte a promuovere comportamenti illegali, con specifico riferimento alla pratica del cosiddetto utero in affitto“. Il governatore si riferisce al documento politico del Roma Pride, intitolato Queeresistenza, che affronta il delicato tema della gestazione per altri. Formula evidentemente troppo complessa per le destre, estreme e non. Per cui si sceglie una dicitura non solo inesatta, ma anche fuorviante. Vediamo perché.

Basterebbe aver fatto bene l’analisi del testo, a scuola, per capire cosa chiede il documento in questione. In cui la gestazione per altri viene citata due volte. La prima: “Vogliamo una legge che introduca e disciplini anche in Italia una gestazione per altri (GPA) etica e solidale, che si basi sul pieno rispetto di tutte le persone coinvolte, sulla scorta delle più avanzate esperienze internazionali e in un’ottica di piena e autentica autodeterminazione”. E la seconda: «Il movimento Lgbtqiak+ ritiene che i diritti delle donne in tema di autodeterminazione dei propri corpi (aborto, gestazione per altri, sex work) […] siano alla base di qualunque altra rivendicazione identitaria e di orientamento”.

Stiamo parlando di 91 parole su 3262. In cui si affermano due principi fondamentali: 1) il rispetto delle donne che decidono di intraprendere la pratica su base volontaria e solidale; 2) la centralità della volontà della donna nelle politiche di rivendicazione. Concetti complessi per qualcuno, è comprensibile. E sappiamo che destra e cultura – anche linguistica – non sono parole che possiamo mettere in rima.

Personalmente credo, invece, che questo evento possa rappresentare un vantaggio per la comunità Lgbt+ tutta. Per almeno tre motivi. Innanzitutto, perché mette in luce chi è che stabilisce la linea politica della Regione Lazio in materia di diritti civili, se è vero – come dichiarano le realtà organizzatrici del Pride – che “il neo Governatore della Regione Lazio Francesco Rocca paga il debito elettorale a Pro Vita” ritirando “il patrocinio concesso con delle motivazioni pretestuose dato che la Regione Lazio conosceva le rivendicazioni e i contenuti politici della manifestazione”. Come dire: non facciamoci illusioni, se ancora è lecito nutrirne (e non lo è).

Ancora: la cassa di risonanza della polemica. Come già per il World Pride del 2000, l’ostilità al corteo di papa Wojtyła fu un vero e proprio boomerang per la chiesa cattolica. Oltre un milione di persone sfilò per la Capitale, mandando a dire al Vaticano qual era il suo posto: in chiesa e oltre Tevere, ben lontano dallo Stato di diritto.

Infine: aiuta a ridefinire la natura di un evento che, negli ultimi anni, si è un po’ troppo svenduto ai brand, a madrine non qualificate, a un immaginario più di costume che di sostanza politica. Il pride, invece, è lotta anche aspra. Non è affatto “la festa di tutti”, come ha dichiarato Rocca, rivestendo gli abiti del classico eterosessuale che spiega alla comunità Lgbt+ come vivere la propria condizione. È la commemorazione di una rivolta, quella di Stonewall, in cui persone massacrate dalla polizia cacciarono via i loro carnefici. Si manifesta per questo. È la nostra Resistenza che ha vinto. E che non si piegherà mai all’estrema destra al potere. E su questo non c’è patrocinio che tenga. Negato o concesso che sia. Buon pride!

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