È uscito nei giorni scorsi per Edizioni inContropiede “Cose di calcio, cose da Toro” (412 pagine, 22,50 euro), una sorta di autobiografia calcistica scritta da Beppe e Marcello Bonetto, padre e figlio, entrambi procuratori sportivi. Il primo – scomparso nel 2017 – è considerato uno degli inventori del ruolo e anche per questo motivo suo figlio ha vissuto sin da bambino negli ambienti del calcio. In considerazione di ciò, il loro libro è un racconto di un’esperienza, a volte appagante, a volte divertente, a volte squallida, sempre avvincente, in questo strano ed esclusivo mondo. Si tratta, comunque, di due storie molto diverse fra loro. Quella di Beppe Bonetto, costellata da rivelazioni inedite, fotografie e documenti privati, non è solo la cronaca appassionata che illustra dettagliatamente come “il Dottore” abbia meticolosamente progettato il Torino dei “Gemelli del Gol” dell’ultimo scudetto granata, ma è anche il ricordo sincero e privo di retorica di tanti famosi personaggi del secolo scorso che del calcio sono stati pittoreschi e indimenticabili protagonisti. L’altra, narrata dal figlio Marcello, alterna aneddoti simpatici, trattative di calciomercato folli, ritratti affettuosi o taglienti di alcuni assistiti, in una carrellata spesso sofferta, ironica, disillusa, critica, persino cinica, sulla professione di procuratore sportivo, dagli albori fino alla recente scelta di abbandonarla. Pagine piene di emozioni per ricordare il Toro del 1976, per sviscerare la professione dell’agente sportivo, per scoprire sessant’anni di successi e delusioni nel mondo del calcio. Qui sotto, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un brano del libro.

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CAPITOLO 2. PIANTI E TRASFERTE – (MARCELLO BONETTO)
Ho molta nostalgia, fortunatamente non canaglia, ma calda e profonda, nei riguardi di molti giocatori del Toro e di tante persone dello staff degli anni della mia infanzia. Non posso dimenticare o trascurare che, come unico figlio del General Manager granata, mi trovai sempre in una posizione di assoluto privilegio per ricevere molte attenzioni e la loro, magari anche interessata, simpatia, ma – tranne il terrificante soggetto di cui prima e il vice presidente granata, Nanni Traversa, che era abbastanza burbero e quasi sempre incazzato con il mondo, mettendo in una qual certa soggezione fantozziana quasi tutti – ritengo sentimenti, forse agiografici, davvero molto positivi nei loro confronti. Dai medici (il professor Cattaneo, un uomo altissimo e magro, in qualcosa simile a Raimondo Vianello, persona capacissima, dolce e sensibile e il dottor Siracusa della Primavera che spesso veniva a casa a farmi le punture, essendo io frequentemente malaticcio) ai massaggiatori (Colla e Monti, per esempio), dai dipendenti (il mitico e spesso placidamente sonnecchiante, anche perché purtroppo diabetico, Forconi) e le segretarie di mio padre (con mia sincera commozione, ne vidi ben quattro al suo funerale) al personale del Filadelfia (Franca Zoso e “Brunetto Del Campo”: il secondo, con lo stare sempre appunto sul campo, aveva acquisito questa nuova identità anagrafica, chiamandosi invece nella realtà Valentino Vigato) fino ai tassisti/autisti di fiducia di mio padre, Giovanni Migneco e suo figlio Franco. Tutte persone che facevano davvero con passione, a volte addirittura con allegria, il proprio lavoro.

Ho ancora immagini abbastanza vivide di due grandi allenatori come Edmondo Fabbri (per grande non intendo la statura…) e Gustavo Giagnoni. Il secondo in particolare aveva un’umanità, una simpatia, una passionalità, una cordialità incredibili: a parte il famoso colbacco che indossava in panchina, mi entusiasmava il suo sorriso, un sorriso caldo, schietto e sincero come solo ai sardi a volte ho visto nascere spontaneamente sulle labbra. E poi c’erano ovviamente i calciatori. Non mi ricordo di Meroni, perché ero troppo piccolo quando morì, ma ho ancora ben presente, pur se assai taciturno, Giorgio Ferrini e molti del gruppo di quelle stagioni (allora una squadra era un’identità ben individuata e coesa, numericamente assai più esigua di oggi, ma con la profonda moralità interna di chi si identificava con convinzione quasi ideologica e attaccamento viscerale, in un preciso colore di maglia e spirito sportivo).

A parte Paolino Pulici, che rimando a più tardi, mi era simpaticissimo il portiere in seconda, Jerry Sattolo, con una evve di pronuncia assai nobile; c’erano altri come il nazionale Giorgio Puia (a causa del quale chiamavo, per qualche motivo ora oscuro anche a me stesso, mia mamma Puja), Natalino Fossati, Serino Rampanti, Bui. “È lui, è lui, è Gianni Bui”: segnò a Catanzaro nel 3 a 1…) che spesso vedo o incontro ancora oggi, c’era il cuore immenso e la simpatia sfrenata di Aldo Agroppi… E io mi perdevo beatamente in questo ruolo un po’ da mascotte che mi piaceva moltissimo. C’era solo un lato assai negativo della medaglia. Le sconfitte. Il Torino non fu mai, con Pianelli Presidente, una squadra ricca e i risultati sportivi si trovarono sempre in un difficile equilibrio oscillante fra le ambizioni smodate dei tifosi, nostalgici di una ormai lontana grandeur, e le mediocri disponibilità economiche, parsimoniosamente gestite da mio padre. E quindi non si vinceva sempre. Anzi, quando si stava per vincere – come, nella stagione 1971/72, addirittura lo scudetto – ci fu sempre qualche cosa dall’alto che fece in modo ciò non fosse, sommandosi automaticamente alla sfiga abbastanza atavica, e quasi rivendicata con orgoglio dai tifosi, dei granata. Crescendo, diventai man mano, partita dopo partita, più partecipe di una realtà domenicale causa di tensioni, anche preventive, terrificanti. A incominciare da mio padre che, di prima mattina, scrutava e tentava di prevedere, tipo sciamano, il tempo: fra sole e pioggia, c’erano in gioco differenze di migliaia di spettatori (solo la tribuna del Comunale risultava, in quei lontani tempi preolimpici, coperta) e quindi molti soldi di incasso al botteghino, allora determinanti in assenza di sponsor sulle maglie e diritti televisivi.

Un operaio della Fiat amico d’infanzia di mio padre, Riccardo Lusso, di profonda fede granata e incrollabile ideologia comunista (che si estrinsecavano in un odio viscerale nei confronti della Juve e soprattutto dell’Avvocato), veniva ogni partita a prendere me e mia mamma e ci portava allo stadio con la sua 127 d’ordinanza. In attesa dell’arrivo all’ultimo minuto di mio padre, ci sedevamo nei nostri posti della Tribuna (settore C o D, a memoria: non erano di Tribuna d’Onore e si trovavano un po’ spostati verso la Curva Maratona) in un anticipo mostruoso rispetto al fischio d’inizio e poi lui ci porgeva – con aria da cospiratore e in un religioso silenzio – un pacchetto di cicles della Brooklyn, ancora sigillato. Il colore della confezione di chewing gum era importantissima per la scaramanzia ed eravamo tutti pressoché certi influenzasse quasi completamente il punteggio finale: a seconda del risultato della partita precedente, dei marcatori, degli eventuali infortuni subiti, del clima, Riccardo – dopo oscuri e perversi algoritmi fatti nell’intimo del bagno di casa sua – sceglieva spesso il pacchettino giallo banana, in questo forse antesignano di Adriano Galliani. Ma oltre alle partite in casa, nelle quali le cose andavano di solito benino, c’era un nemico assai più insidioso e traumatizzante: le trasferte.

Il peggio era sicuramente il percorso di ritorno: in caso di sconfitta era di rigore un assoluto, religioso silenzio, rotto saltuariamente solo da qualche lamento o imprecazione. Fosse un rientro in macchina da Catanzaro (lì era andata bene, ma chissà perché i miei mi avevano riparlato ancora, durante l’interminabile viaggio, di quel calcetto quasi innocente…) o da Milano, mio padre taceva, mia mamma sacramentava ogni ora insultando qualcuno, io rantolavo. E le sconfitte erano più frequenti in trasferta, ovviamente. Fra i calciatori citati prima, ho volutamente tralasciato il Giaguaro e cioè Luciano Castellini: il portiere. Ho incontrato recentemente Luciano ed è ancora un bell’uomo (sempre profumatissimo), simpatico e cordiale, ancora in grande spolvero fisico. Sul campo, pur se un po’ emotivo (spesso lui, Agroppi e mio padre si trovavano come in un appuntamento galante nel prepartita nei cessi del Comunale e lascio alla fantasia di chi legge immaginare il tipo di problema comune…) era di un’esplosività e un’agilità entusiasmanti: appunto da giaguaro. Era anche un grande atleta in generale, in un’epoca in cui i calciatori lo erano assai poco, e quindi spesso tentava di lunedì la fuga, praticando di straforo sport pericolosissimi per la sua professione, come discesa libera d’inverno o sci nautico d’estate, mandando così il più delle volte in un profondo marasma mio padre. Comunque – o forse proprio per questo – era uno dei miei favoriti. E quindi ho questo flash agghiacciante di un Lanerossi Vicenza-Torino 1-0 del 28 gennaio 1973. Ottantaduesimo minuto… Ci si barcamenava su uno 0-0 mediocre e abbastanza squallido, ma ottimo per la media inglese… Soffrivo al solito come una bestia, spesso nascondendomi, per la paura di vedere il Torino subire un gol, dietro uno dei tristemente famosi e fastidiosissimi pali della già allora fatiscente tribuna del Menti… All’improvviso, con i granata arroccati in difesa, direi su un calcio d’angolo, Natalino Fossati partì in una sforbiciata fantozziana che ottenne due immediati effetti devastanti: autorete, con successiva sconfitta finale per 1-0, ed egualmente involontaria apertura chirurgica, con un tacchetto della scarpa di certo affilato ad arte, della gamba del predetto Giaguaro, praticamente dalla caviglia all’inguine.

Peraltro all’epoca era prevista una sola sostituzione e quindi entrò ed esordì un giovanissimo Claudio Garella (da Agroppi pittorescamente ribattezzato con la sillaba “Ca” anteposta al cognome) e Castellini venne portato via in barella, apparentemente esanime. A quel punto nel sopraggiunto relativo silenzio dello stadio, il pubblico aveva infatti percepito fosse un infortunio abbastanza serio, si sentì un fragoroso pianto a dirotto provenire dalla tribuna. Il mio. Inconsolabile. Così inconsolabile, che molti tifosi vicentini tentarono invece di provare a farlo. Fu una delle più clamorose prove di fair play ante litteram della storia del calcio. Si avvicinarono infatti una decina di persone e invece di tirare i caratteristici bestemmioni veneti (una volta a Padova la mia ex moglie tentò un esorcismo su un bestemmiatore da competizione che inanellò circa un migliaio di sacramentoni in 105 minuti, sfruttando implacabile anche l’intervallo) provarono con cortesi banalità tipo: “Andrà meglio la prossima volta…”, senza peraltro riuscire a moderare i miei ululati di disperazione. Mi ripresi un po’ solo nel momento in cui, finita la partita, mi rassicurarono sul fatto che Castellini fosse ancora vivo (pur con 32 punti di sutura). Da quel giorno però guardo ancora Natalino Fossati, che spesso incontro in palestra, con un certo sospetto.

Il ritorno in macchina quella domenica fu interminabile: fossi stato credente si sarebbe aggiunto al silenzio di tomba, un lugubre snocciolamento di rosario. In verità, proprio in riferimento al mio radicato ateismo già molto accentuato nell’infanzia l’importante posizione politico/sportiva di mio padre aiutò. Per qualche oscuro motivo, i miei volevano farmi fare la Comunione, dopo avermi già battezzato a tradimento (non solo mia nonna era atea, lo erano profondamente anche loro e quindi non ho mai compreso il motivo di tale scelta, per me oltremodo fastidiosa e imbarazzante). Ero terrorizzato: tre anni, dicesi tre interminabili anni, di catechismo, con preoccupantissime prospettive, quasi certezze, di narcolessia e orchiti. Inoltre il mio adorato nonno materno, con mezze parole, mi aveva fatto capire che alcune “lezioni molto, molto private” ricevute in gioventù da un prete, non erano andate esattamente a buon fine per la sua serenità sessuale. A scuola godevo di indubbi privilegi: intanto perché (almeno alle elementari…) ero secchione e trasudante ottimi voti, ma soprattutto perché in quarta e in quinta era arrivato un bravissimo maestro, Rocco Valentino (un anno creò addirittura dal nulla – all’interno della scuola – una cartoleria/cooperativa con tanto di azioni ciclostilate e dividendi finali, con noi alunni protagonisti), tifosissimo del Toro. Ogni tanto in aula però si manifestava anche un prete della adiacente parrocchia Vianney, tale Don Franco, anch’egli (una volta informato dal buon Valentino della posizione lavorativa di mio padre) dichiaratosi tifosissimo granata. Con spirito imprenditoriale mio padre barattò immediatamente tre anni di devastante catechismo, con tre anni di abbonamenti omaggio in tribuna e quindi evitai del tutto i temuti pomeriggi religiosi. Il risultato fu un’agghiacciante Comunione, in cui mi presentai, come sempre incolpevolmente, agghindato da mia madre tipo Principino di Windsor, grazie all’arte di Pinuccio Tricase (più noto per essere stato il sarto esecutore dei look eccentrici di Gigi Meroni, oltre che di Walter Chiari, Renato Rascel, il Trap, Diego Novelli e meno per avere avuto come cliente involontario e anche un po’ disperato il Principino in questione: fu il miglior amico di mio padre, presenza costante della mia infanzia, nati entrambi nell’ottobre 1934 e morti a un solo giorno di distanza). Ancora oggi non conosco una sola preghiera nella sua interezza. E sopravvivo (spero) ugualmente, pur se negli abissi del peccato.

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