In principio fu la “Grande riforma“. Il copyright – maiuscole comprese – è di Bettino Craxi, che nel 1979 auspicò sull’Avanti! una poderosa riscrittura della Costituzione con al centro l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Più di quarant’anni dopo siamo ancora lì. È cambiato il mondo, sono fallite tre Bicamerali e gli elettori hanno bocciato due referendum, ma l’oggetto di dibattito politico resta sempre quello: riscrivere profondamente la Carta. Soprattutto nella parte che disciplina la forma di governo. Ma andiamo con ordine.

La riforma in bermuda – Sin dalla campagna elettorale era noto che Giorgia Meloni volesse varare l’elezione diretta del capo dello Stato. A parte questo, però, non è ancora chiaro cosa ci sarà nella riforma costituzionale del centrodestra: il nuovo presidente eletto che poteri avrà? E da chi incasserà la fiducia, da Camera e Senato? O da un solo ramo del Parlamento? Evidentemente bisognerà aspettare l’esito degli incontri della premier con gli esponenti dell’opposizione. Al momento, tra l’altro, non è chiaro neanche se la regia della riscrittura della Carta toccherà a Elisabetta Casellati, ministra delle Riforme, o a Roberto Calderoli, che è titolare dell’Autonomia e degli Affari regionali, ma che sembra già esprimersi da padre costituente, chiudendo ogni dialogo col Pd e col M5s. Un ruolo che gli era toccato già vent’anni fa: nell’agosto del 2003 i “quattro saggi” della Casa della Libertà si arrampicarono fino a Lorenzago di Cadore per riscrivere ampie parti della legge fondamentale dello Stato. Complice la calura estiva, Calderoli si presentò all’appuntamento epocale in bermuda. Li avrebbe indossati anche tre anni dopo, per andare a votare al referendum. “Li ho messi – spiegò – perché mi hanno portato fortuna a Lorenzago. Mi prendevano in giro dicendo che non si poteva scrivere una riforma in pantaloni corti“. E invece il prodotto del governo Berlusconi venne bocciato: il 61% degli elettori si espresse contro la riforma scritta in bermuda.

La Costituzione come un mobile antico – Per la verità riscrivere la Costituzione è molto complesso anche se si indossano i pantaloni lunghi. In tanti ci hanno provato, molti hanno fallito e chi ha avuto successo ci è riuscito solo quando si trattava di modifiche minime: cancellare il divieto di rientro in Italia per gli eredi maschi di Casa Savoia (Berlusconi), inserire il pareggio di bilancio (Mario Monti), ridurre il numero di Parlamentari (Giuseppe Conte). Quando le modifiche sono state più sostanziose hanno provocato disfunzioni (la riforma del titolo V, varata dal centrosinistra col referendum approvato nel 2001), oppure sono fallite miseramente: spesso prima dell’approvazione, a volte perché bocciate sonoramente dagli elettori. Un meccanismo che Giulio Andreotti spiegava così: “Penso che la Costituzione sia come quei mobili antichi che bisogna sì pulire, ma con attenzione perché a restaurarli si corre il rischio di restare con in mano un mucchio di segatura“. Una battuta fulminante che però fa capire perché negli anni ’80 le prime ipotesi di riforme costituzionali fallirono miseramente.

Le prime dimenticabili Bicamerali – La nascita della prima commissione Bicamerale risale al 1983, subito dopo l’arrivo a Palazzo Chigi di Craxi, il primo grande sponsor dell’elezione diretta del capo dello Stato. Era presieduta da un canuto liberale, Aldo Bozzi, che era stato ministro dei Trasporti con Andreotti. Dopo due anni di lavori propose di revisionare 44 articoli della Carta, introducendo la fiducia solo per il presidente del consiglio, senza però toccare la forma di governo parlamentare. Tra le altre cose proponeva di ridurre i parlamentari, di rafforzare il potere legislativo della Camera, d’introdurre un tetto alle spese che i candidati possono sostenere in campagna elettorale. Tutte ipotesi di scuola, visto che la commissione non aveva alcun potere per avviare l’esame parlamentare delle sue proposte. L’iniziativa doveva toccare ai partiti, che ovviamente non si misero d’accordo e tutto il primo progetto della “Grande riforma” finì nel cestino. Alcuni spunti di quella Bicamerale vennero recuperati otto anni dopo, quando il Parlamento ci riprovò: nel 1993 venne varata una nuova commissione, quella presieduta da Ciriaco De Mita e da Nilde Iotti. Erano i mesi di Tangentopoli ed è forse per questo motivo se quella Bicamerale non ha lasciato particolari tracce nella storia del Paese. Tra le proposte elaborate c’era anche quella di un governo neoparlamentare: in caso di sfiducia non cade solo l’esecutivo ma l’intero Parlamento. Una proposta mai esaminata, visto che arrivò la fine anticipata dalla legislatura e quindi pure della Prima Repubblica.

Inciucio con crostata – Con la nascita della Seconda Repubblica la voglia di riscrivere la Carta si diffonde in modo trasversale. E provoca l’inserimento di termini nuovi nel vocabolario politico: “inciucio” sarà uno di quelli più fortunati. Comincia a circolare nel giugno del 1997, quando al governo c’è Romano Prodi e i lavori della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema stanno entrando nel vivo. Nella casa romana di Gianni Letta va in onda una cena a quattro: Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Franco Marini e l’allora leader dei Ds. Arrivati al dolce, che secondo la leggenda era una crostata preparata dalla signora Letta, viene siglato il patto: semipresidenzialismo, legge elettorale maggioritaria a doppio turno, separazione delle carriere tra giudici e pm. “Il mio piano di Rinascita democratica? Vedo che vent’anni dopo questa Bicamerale lo sta copiando pezzo per pezzo. Meglio tardi che mai, ma mi dovrebbero almeno dare il copyright…”, disse beffardo Licio Gelli in un’intervista al Borghese. Il Venerabile, però, non ottenne alcuna royalty. Tutta colpa di un altro iscritto alla P2: dopo essersi mangiato la crostata, infatti, Berlusconi si rimangiò anche il patto, chiedendo una legge elettorale proporzionale e il cancellierato. Una sorta di ultimatum che fece saltare il tavolo. “La Bicamerale è morta. Sia chiaro che non è né un suicidio né un ictus. È un omicidio e l’assassino si chiama Silvio Berlusconi“, fu l’epitaffio del diessino Fabio Mussi. L’uomo di Arcore non smentì: “Credo che sia un titolo di assoluto merito avere evitato cattive riforme”.

I saggi di Lorenzago – Il fallimento del patto della crostata sancisce la fine delle Bicamerali e l’inizio delle riforme costituzionali a colpi di maggioranza, seguendo l’articolo 138 della Carta. Alla fine di quella stessa legislatura il centrosinistra – premier era Giuliano Amato – riuscì ad approvare la riscrittura del titolo V, che assegnava alle Regioni tutta una serie di competenze su materie nazionali come energia, trasporti e sanità. Una modifica approvata dal voto nel primo referendum istituzionale, ma che ha creato lunghi contenziosi tra Stato e Regioni, provocando discrasie evidenziate anche durante la pandemia. Il 2003, invece, è l’anno dei saggi di Lorenzago di Cadore, mille anime sui monti di Belluno, dove Giulio Tremonti aveva ristrutturato un fienile. Sulle colline celebrate da Giosuè Carducci arrivarono i padri costituenti dell’allora Casa delle Libertà, guidati da un Calderoli in braghe corte: Andrea Pastore di Forza Italia, Domenico Nania di An e Francesco D’Onofrio dell’Udc. In una baita a una stella (“C’erano perfino gli infissi in alluminio”, confessò D’Onofrio) venne stilata una bozza di 21 pagine, che modificava 53 articoli della Carta e prevedeva – tra le altre cose – il “premierato forte“, cioè un premier con grandi poteri scelto direttamente dagli elettori, la fantomatica devolution, cioè la cessione da parte dello Stato di una serie di funzioni delle Regioni, il Senato federale. Calderoli provò a fare una battuta, con scarso successo: “Quattro topolini hanno partorito una montagna”. Il politologo Giovanni Sartori lo fulminò, definendo quella riforma “il mostriciattolo di Lorenzago“. Definizione condivisa dagli elettori che la bocciarono, nonostante i bermuda porta fortuna di Calderoli, indossati pure al seggio per il secondo referendum costituzionale.

Il flop di Renzi e i saggi di Napolitano – Il terzo referendum, invece, è storia recente: la riforma Renzi venne respinta dagli elettori, complice anche un’estrema personalizzazione del voto da parte dell’allora leader del Pd. L’ex sindaco di Firenze proponeva di modificare 47 articoli della Carta, superando il bicameralismo perfetto, eliminando le province e riformando (di nuovo) i rapporti tra Stato e Regione. Prendeva spunto anche dalle proposte avanzate dai dieci saggi nominati nel 2013 da Giorgio Napolitano, che avevano fatto notizia soprattutto per un week end di lavoro in un hotel 4 stelle Superior a Francavilla al Mare. Nessuno si era presentato in bermuda.

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