Anche se non scende in campo, in Sudamerica c’è un nemico invisibile temuto da tutte le grandi del continente, sia club che nazionali: il fantasma dell’altura. Una volta Diego Armando Maradona, alla vigilia di uno storico rovescio dell’Argentina in Bolivia, aveva provato ad esorcizzarlo con l’ironia. “L’altitudine bisogna affrontarla, dribblarla e farle gol”, aveva dichiarato, scherzando, il Pibe de Oro. Facile a dirsi, molto più complicato a farsi, come testimoniano le sconfitte di River Plate, Palmeiras e Flamengo, ovvero tre pretendenti alla vittoria finale, nella prima giornata della Copa Libertadores: gli argentini – che hanno rischiato seriamente di prendere un’imbarcata dal The Strongest (vittorioso 3 a 1), e il Verdão – battuto con lo stesso punteggio dal Bolivar – hanno pagato dazio gli oltre 3600 metri d’altitudine dell’Estadio Hernando Siles di La Paz. Leggermente più basso, a quasi 3000 metri sul livello del mare, si trova invece l’Estadio Gonzalo Pozo Ripalda di Quito, in Ecuador, teatro della sconfitta del Mengão con i padroni di casa dell’Aucas, vittoriosi per 2 a 1.

Effetti dell’altura. Ne è consapevole Martin Demichelis, l’ex difensore di Bayern Monaco e Manchester City, ora erede di Marcelo Gallardo sulla panchina del River Plate. “Sono insoddisfatto del risultato, ma la prestazione nei 90 minuti è stata buona. È vero che sul 3-0 per loro c’era il rischio di passare un brutto momento, ma l’altura di La Paz ti punisce: chi è abituato a giocare in queste condizioni spesso riesce ad approfittarne”. Gli ha fatto eco Abel Ferreira, l’allenatore del Palmeiras, particolarmente polemico con la Conmebol, il governo del calcio sudamericano. “Oggi ero in albergo e un ospite mi ha chiesto come fosse possibile giocare una gara di calcio ad una quota così elevata. Se non causasse troppa sofferenza ai giocatori, insomma”, ha raccontato Ferreira. “Gli ho risposto che non sono io ad occuparmi dell’organizzazione di questi eventi, ma la Conmebol. Oltretutto il calendario ci è stato comunicato solo una settimana prima della partita e abbiamo dovuto organizzare questo viaggio in fretta”.

L’altura, si sa, è il miglior alleato delle squadre boliviane. Le squadre paceñe non hanno mai vinto tornei continentali e sono tecnicamente piuttosto modeste. Eppure tra le mura amiche vantano dei ruolini di marcia stratosferici, in alcuni casi migliori di quelli di alcune big, come ha fatto notare recentemente l’appassionato di statistiche calcistiche Vincenzo Raiano. I numeri parlano chiaro. Ad esempio, in 88 partite casalinghe di Copa Libertadores, il The Strongest ha ottenuto 53 vittorie, 20 pareggi e solamente 15 sconfitte. Ancora meglio ha fatto il Bolivar: in 122 gare, l’Academia Celeste ha trionfato 80 volte, 27 volte ha pareggiato e 15 volte ha perso. Senza dimenticare che la Copa America del 1963, l’unica conquistata dalla nazionale boliviana, si è disputata proprio nel paese andino, con la Verde capace di battere nella gara decisiva il Brasile, anche se quella verdeoro era una versione sperimentale priva delle stelle che solo un anno prima avevano sollevato la Coppa del Mondo in Cile.

Giocare in quota, d’altronde, comporta uno stress fisico non indifferente per il corpo umano, specie se non abituato. Il “soroche”, il famigerato mal di montagna tipico delle Ande scatenato dall’aria rarefatta, favorisce l’insorgenza di fenomeni tachicardici, provocando frequenti giramenti di testa e rendendo le gambe pesanti. Nel 2012, per scoprire l’incidenza dell’altitudine sulle prestazioni dei giocatori, l’Istituto boliviano di biologia dell’altitudine (IBBA), insieme ad un team di scienziati internazionali, ha condotto un test sulla nazionale U17 dell’Australia. “Utilizzando un GPS personalizzato, caricato con vari software, abbiamo controllato lo sforzo, l’usura e altri parametri medici di ogni giocatore”, ha dichiarato Walter Schmidt, uno scienziato tedesco dell’Università di Bayreuth coinvolto nel progetto. L’obiettivo era quello di studiare meglio alcuni processi che intervengono nell’organismo umano quando è sottoposto a determinate condizioni. “Vogliamo sapere quali cambiamenti avvengono nei calciatori quando salgono e giocano in quota lo stesso giorno o quando giocano 48 ore più tardi”, ha spiegato Raul Alberto Morales, direttore della Clinica Nacional del Deporte, anche lui tra i promotori del test.

I risultati dello studio, arrivati a culmine di un lavoro cominciato nel 2007, sono stati piuttosto sorprendenti, anche perché piuttosto in contraddizione con quelli emersi dagli studi in maniera commissionati dalla FIFA. “È vero, l’altitudine diminuisce le capacità nei primi giorni per chi viene dall’estero, ma non incide in alcun modo sulla salute e nemmeno rappresenta un rischio per un calciatore”, ha rivelato sempre Schmidt al quotidiano La Razon. “Le prestazioni degli australiani ne hanno risentito fino al secondo e terzo giorno, ma il tutto è sempre rimasto entro parametri abbastanza normali”. Acclimatarsi è fondamentale, dunque, ma con i ritmi forsennati del calcio moderno non sempre c’è il tempo per poterlo fare adeguatamente. Per questo il fantasma dell’altura terrorizza le corazzate del Subcontinente, che spesso ne finiscono vittime. Ne sapeva qualcosa anche Diego Armando Maradona, commissario tecnico dell’Argentina in quell’infausto 1 aprile del 2009, quando la Bolivia ha inflitto un’umiliazione storica all’Albiceleste di Messi e Tevez, travolgendola con un pesantissimo 6 a 1. “Ho sofferto con i miei giocatori. Ogni goal segnato dalla Bolivia era una coltellata dritta al cuore”, dichiarò un tramortito Pibe De Oro, criticatissimo dai media argentini.

Proprio lui, curiosamente, nel 2008 era stato ospite di Evo Morales, il presidente boliviano di cui era amico, per partecipare ad una gara simbolica organizzata dal governo boliviano allo scopo di spingere la FIFA a revocare il divieto, imposto qualche mese prima, di giocare match in altura senza un periodo di acclimatamento preventivo. Un’occasione per condurre un’altra delle sue tante battaglie contro la federazione internazionale, all’epoca presieduta da Joseph Blatter. “E’ ridicolo che vogliano togliere alla Bolivia la possibilità di giocare in casa”, aveva tuonato il fuoriclasse argentino. “Dio ha assegnato un posto a ciascuno di noi e noi dobbiamo rispettarlo”. Un anno più tardi, probabilmente, se ne era già pentito. Per evitare quella gogna pubblica, magari, il Pibe de Oro poteva seguire l’esempio di un’altra Argentina, quella del 1972, allenata da Omar Sivori. Il Cabezón era stato chiamato dall’AFA al capezzale dell’Albiceleste, reduce dalla mancata qualificazione ai mondiali messicani del 1970, con un solo obiettivo: strappare un biglietto per la successiva Coppa del Mondo, in Germania Ovest, nel 1974. A preoccupare Sivori più d’ogni altra cosa era la trasferta in Bolivia. Così il Cabezón pensò bene di assemblare una nazionale parallela con un altro gruppo di giocatori, affidandola al fido Juan Manuel Ignomiriello, un ex allenatore delle giovanili dell’Estudiantes. Era una vera e propria Selección B. Una squadra fantasma, come passerà alla storia, messa in piedi praticamente per giocare una sola partita: quella con la Bolivia a La Paz, appunto. Lo stratagemma escogitato da Sivori superò l’esame del campo: l’Equipo Fantasma, che era partito alla volta della Bolivia due mesi e mezzo prima della sfida per adattarsi alle condizioni estreme dell’altura andina, sbancò Hernando Siles grazie ad un colpo di testa di Oscar Fornari, ottenendo un successo fondamentale per la qualificazione al mondiale tedesco, festeggiata poi nelle settimane successive. Il River Plate, che non vince nella capitale boliviana da 53 anni, farebbe meglio a prendere appunti.

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