Negli anni 70 alcune femministe, stanche di essere sempre considerate vittime, donne discriminate e posizionate all’ultimo gradino della piramide sociale, inventarono lo slogan “Donne è bello” per capovolgere un paradigma e un destino di sottomissione e di recriminazione che sembrava immutabile.

L’’8 marzo, come ogni anno, si moltiplicano feste, incontri, convegni, iniziative per ricordare la giornata internazionale della donna: un rituale ormai un po’ stanco e abusato che però ha il merito di evidenziare, almeno quel giorno, le tante ombre e le poche luci che incombono sulle donne.

Se guardiamo al panorama italiano possiamo dire che non c’è nulla o ben poco da festeggiare: il nostro Paese ha i più bassi livelli di occupazione femminile nell’Unione Europea con il 52,5%, secondo solo alla Grecia, con una media europea di 66,5% di occupate ogni 100 donne tra 20 e 64 anni. E quando il lavoro una donna ce l’ha, persiste un importante divario salariale che si riverbera anche nel sistema previdenziale per cui le donne hanno pensioni molto più basse e che, ultima ciliegina sulla torta di questo governo, agevola le donne madri da quelle che madri non sono, attuando una discriminazione incomprensibile.

Abbiamo un welfare inesistente che si regge grazie al lavoro di cura delle donne non pagato e che spesso le costringe a lasciare l’occupazione retribuita; la scelta o la non scelta della maternità oggi è condizionata da ostacoli di natura sociale, culturale e politica, ma anche da pregiudizi sul ruolo di madre, sul suo istinto materno e sulla responsabilità che la società le attribuisce per la crisi della natalità.

I lavori di cura e quelli domestici, in molti contesti, non sono ancora condivisi fra i partners in maniera paritaria e i governi che si sono succeduti in questi ultimi anni non hanno certo favorito l’inversione di tendenza che si auspicava arrivando a concedere 10 giorni di congedo parentale obbligatorio al padre, un’inezia rispetto alle 16 settimane della Spagna (paritarie con la madre) o alle 46 settimane pagate al 100% (12 settimane per la mamma, 12 per il papà e il resto da dividere fra i due genitori) della Norvegia, così come avviene nella maggior parte dei Paesi Scandinavi.

L’autodeterminazione in tema di diritti sessuali e riproduttivi, che molti passi avanti aveva fatto nei decenni passati, è messa continuamente sotto attacco e bisogna lottare con le unghie e con i denti per mantenere almeno i diritti acquisiti.

La violenza contro le donne rimane uno dei fenomeni più drammatici: è una delle principali cause di morte delle donne e contrastarla in modo efficace continua ad essere ancora un’utopia se, come succede, si persiste a tagliare risorse, a preferire la repressione del fenomeno e non la sua prevenzione.

Qualche passo avanti si è fatto rispetto alla presenza delle donne nei Consigli di amministrazione e nei ruoli apicali, ma solo perché esiste una legge che ne impone una quota, dove questa norma non può essere applicata le percentuali diminuiscono sensibilmente e in alcuni casi si azzerano. E lo stesso discorso vale per la rappresentanza politica: nelle istituzioni, in assenza di “azioni positive” che assicurino l’effettività dell’eguaglianza e l’eliminazione di ogni discriminazione, anche indiretta, non si raggiungono i risultati auspicati.
Ma quest’anno la celebrazione di questa giornata sembra essere ancora più stridente rispetto a quello che sta succedendo intorno a noi.

Non possiamo non pensare a quelle donne morte a Cutro o a quelle madri che stanno piangendo i 18 bambini e bambine deceduti nel naufragio. E non possiamo non pensare che “una donna, una madre, una cristiana” – come si definisce la Presidente del Consiglio –non sia subito accorsa su quella spiaggia, con il capo chino, a portare il cordoglio e il dolore del nostro Paese, e non abbia trovato il tempo neanche per rivolgere da lontano qualche parola di compassione, di vicinanza, di pietà, da madre a madre, da donna a donna, da essere umano a essere umano.

Non possiamo non pensare alla lotta delle donne iraniane che stanno mettendo a repentaglio le loro vite pur di abbattere quel regime teocratico e di ora in ora si allunga la lista delle donne che sono state condannate a morte negli ultimi dieci anni, e in particolare in questi ultimi mesi, da quando è iniziata la protesta. Il regime iraniano ha un triste primato mondiale: quello del maggior numero di esecuzioni di donne. Per non parlare delle centinaia di casi di avvelenamento tra le giovani studentesse, prevalentemente nelle città a sud di Teheran che stanno venendo alla luce in questi giorni.

Non possiamo pensare alla resistenza delle donne afghane, a cui ogni giorno viene tolta qualche piccola libertà faticosamente conquistata e i cui diritti fondamentali vengono continuamente erosi e in cui rimangono impunite le violenze domestiche, anche quelle contro le minori.

Non possiamo non pensare alle donne che stanno vivendo in Paesi dove perdurano conflitti, alcuni ormai da decenni, che continuano ad acuirsi senza raggiungere nessuna soluzione di pace, donne che non hanno prospettive per sé e i propri figli, vivendo in uno stato di continua angoscia, quasi sempre subendo stupri che diventano un’arma, perché nei conflitti il corpo delle donne diviene preda di guerra, diviene uno strumento per sottomettere e opprimere le comunità.

Non possiamo non pensare a tutte quelle donne che in ogni Paese del mondo, in famiglia, nelle strade, nei luoghi di lavoro, subiscono violenze: fisiche, psicologiche, economiche, molestie, vessazioni e soprusi per il semplice fatto di essere donne e perché il patriarcato è ancora imperante e soffocante nella nostra società.

E allora quello slogan di 50 anni fa oggi lo declinerei: “Donna potrebbe essere bello” se solo la società assumesse una visione femminista, se una politica diversa, paritaria, e inclusiva di tutti i generi, fosse vista come una ricchezza e non come un problema.

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