Esportazione di armamenti senza autorizzazione e falso in atto pubblico. Con queste accuse, lo scorso 23 gennaio, sono stati sequestrati nel porto di Genova due container destinati all’Etiopia carichi di macchinari e materiali per la fabbricazione di proiettili per il conflitto in corso nel Tigray. In base alla legge 185 del 1990, tutte le armi in esportazione, importazione e transito dall’Italia, devono essere monitorate dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) del ministero degli Esteri. Per eludere i controlli, la scorciatoia che in questi anni hanno provato a percorrere diverse aziende è stata quella di far passare gli armamenti come merce destinata a uso civile. È quello che stava tentando di fare anche la società di Lecco intenzionata a imbarcare da Genova i suoi macchinari verso l’Etiopia, se non fosse stata bloccata da un’inchiesta che la Guardia di Finanza portava avanti da quattro mesi. Oltre ai ripetuti tentativi di elusione da parte dei produttori di armi, un altro elemento che depotenzia l’efficacia dei limiti che la legge 185/90 e il trattato Onu sul commercio delle armi metterebbero all’esportazione di armamenti è l’influenza che possono avere equilibri e interessi politici internazionali sulle decisioni del ministero degli Esteri.

“Quando la prima nave della flotta saudita Bahri è arrivata a Genova, il 1 luglio 2014 – ricorda Carlo Tombola dell’osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei ‘Weapon Watch’ – è stata fermata per un mese dalle autorità competenti perché trovata carica di armamenti (27 carri armati Abrams, 6 autocarri militari Taurus, un’unità mobile di telecomunicazioni e radar e 77 container pieni zeppi di attrezzature belliche di ogni tipo) provenienti dal Canada e destinati all’Arabia Saudita. Un arsenale galleggiante, gestito dall’agenzia marittima Delta che dichiarava il carico “coperto da segreto di Stato” e non l’aveva dichiarato alle autorità competenti. Dopo alcuni giorni di ‘blocco’, però, era intervenuta direttamente il consolato Usa a difendere la legittimità del transito. Le argomentazioni statunitensi, riservate, evidentemente convinsero il ministero degli Esteri, visto che rilasciò il comandante che era stato fermato e autorizzò quel carico a transitare. Da quel giorno continua a farlo, da anni, almeno una volta al mese, nonostante la delibera comunitaria che vieta la vendita di armi all’Arabia Saudita a causa del sanguinoso conflitto in Yemen”.

In casi come questo, le aziende ormai non provano neanche a eludere la legge, dichiarano apertamente quali armamenti sono a bordo certi che avranno le autorizzazioni necessarie anche se ci sono delibere di embargo in corso o il transito violerebbe la legge 185/90 o il trattato sul commercio di armi dell’Onu. Le autorità locali sembra non possano farci nulla: la Capitaneria riferisce di potersi esprimere solo sulla sicurezza della navigazione, l’Autorità portuale dichiara di non avere documentazione della merce in transito, la Prefettura deve avere (e ha) tutte le informazioni sugli armamenti in transito, ma può intervenire solo in base alle indicazioni dell’Uama. Insomma finché per l’Unità del Ministero degli Esteri è tutto regolare, i margini di manovra per bloccare i transiti sono minimi.

A rompere questo equilibrio che rende possibile e tollerato il transito di armamenti verso scenari di guerra hanno provato i lavoratori portuali, con ripetuti scioperi e proteste che vanno avanti da cinque anni. Eppure, oltre a un’accusa di associazione a delinquere, l’unico risultato che hanno ottenuto a oggi è la promessa che non vengano più caricati armamenti dalle banchine di Genova, senza che questo incida minimamente sul transito di navi già cariche di armi, elicotteri, carri armati, missili e altro materiale bellico o esplosivo .“Vogliamo sabotare questo meccanismo, che negli anni ha consentito una crescita del business della vendita di armamenti, anche in zone di guerra – spiegano dal Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, che assieme a una rete di associazioni e sindacati di base provano a rilanciare – Non possiamo accettare la logica che alcune guerre siano ritenute legittime e altre no, non vogliamo collaborare con il nostro lavoro alla filiera del mercato delle armi, chiediamo il pieno rispetto della legge 185 del 1990 e della Costituzione”.

La legge che vieta il commercio di armi verso paesi che potrebbero utilizzarle per commettere violazioni di diritti umani, mettere in pericolo popolazioni civili o violare convenzioni internazionali esiste già, quello che chiedono i lavoratori portuali è solo che venga rispettata. Consapevoli della dimensione internazionale del mercato delle armi e degli interessi economici e politici che lo muovono, in questi mesi hanno provato a creare a loro volta una rete internazionale: “Girando diversi porti europei e parlando con altri sindacalisti ci siamo resi conto che gli interessi dell’industria delle armi sono troppo interconnessi a livello mondiale per essere affrontati esclusivamente sul piano della sicurezza sul lavoro e dell’obiezione di coscienza ai singoli carichi di armamenti – spiegano – per questo abbiamo deciso di lanciare una giornata internazionale di mobilitazione sperando di raccogliere l’adesione non solo di pacifisti e antimilitaristi ma più in generale di tutte le persone stanche e spaventate dall’escalation bellica alla quale stiamo assistendo, dalla parte dei popoli vittime di guerre civili e crisi umanitarie”.

L’obiettivo che il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali pensa di poter raggiungere è quello di vietare quanto meno l’uso dei porti civili per il transito di armamenti. Per la manifestazione di sabato 25 febbraio alle 14.30 a Genova sono attesi un migliaio di persone tra lavoratori e attivisti provenienti da città italiane e alcune delegazioni di portuali da Francia, Germania, Grecia e Spagna. Allo stato attuale il programma della giornata prevede un corteo sulla strada interna al Porto che costeggia i terminal dove attraccano le navi della flotta saudita Bahri. Ma è difficile immaginare che in queste settimane la Prefettura non tenti una mediazione con gli organizzatori per autorizzare un percorso alternativo che resti esterno all’area gestita dall’Autorità Portuale, normalmente preclusa alla cittadinanza. Per lo stesso giorno è previsto anche lo sciopero di 24 ore con astensione dal lavoro in tutti i Porti italiani indetto dall’Unione sindacale di base.

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