Dai porti italiani transita “materiale militare, anche pericoloso ed esplosivo”, imbarcato sulle navi della flotta Bahri dirette in Arabia Saudita. Questo avviene malgrado l’embargo votato due anni fa alla Camera e ribadito a livello internazionale con la risoluzione del Parlamento europeo del 17 settembre 2020 che ha messo nero su bianco il fatto che “le armi esportate verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti” vengono utilizzate nella “guerra sporca dello Yemen, dove 22 milioni di persone hanno bisogno di protezione e aiuti umanitari”. La conferma dei ripetuti transiti di armi dal porto di Genova verso zone del mondo in cui vige l’embargo relativo proprio alla vendita di armamenti si può leggere tra le righe delle quattro pagine con le quali, lo scorso 8 luglio, il sottosegretario al ministero degli Esteri, Manlio Di Stefano, ha risposto all’interrogazione depositata tre mesi fa dalla deputata Yana Chiara Ehm (co-fondatrice del gruppo parlamentare di sinistra ManifestA).
Nel preambolo della sua risposta, il fedelissimo del capo dicastero Luigi Di Maio riconosce il fatto che le navi “Bahri” siano utilizzate per trasferire armamenti dal Nord America verso l’Arabia Saudita e navi della flotta saudita cariche di “armi ed esplosivi, pur pericolosi, ma non radioattivi” facciano regolarmente scalo al porto di Genova. Eppure, mentre questi elementi da anni portano il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali e diverse associazioni pacifiste e antimilitariste (oltre che, più recentemente, l’Arcidiocesi di Genova) a chiedere il blocco di questo commercio, le conclusioni alle quali arriva l’esponente di “Insieme per il Futuro”, a nome del ministero, vanno in direzione opposta. Di Stefano ritiene che questi transiti non violino la legge 185/90 che regola il commercio di armamenti “né delle altre disposizioni internazionali”. Per questo motivo, aggiunge: “Non si ravvede la necessità di assumere specifiche iniziative in proposito”.
Nell’argomentare la sua posizione, l’ex-grillino sembra ridurre la questione a una serie di procedure burocratiche che le navi delle armi devono osservare. “Ci saremmo aspettati una risposta politica – replicano dal Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali di Genova – invece questo firmato dal sottosegretario ci sembra solo un maldestro tentativo di giustificare, a livello formale, la legalità di una filiera della guerra e della morte che non riteniamo legittima e con la quale abbiamo deciso di non collaborare in alcun modo”.
Le stesse deputate del gruppo parlamentare ManifestA (a loro volta originariamente elette tra le fila del M5s), nell’interrogazione dello scorso 19 aprile non si limitavano a chiedere quali interventi intendesse operare il governo, ma sottolineavano come questi transiti di armamenti “destinati ai territori di guerra” già in passato avrebbero “violato il blocco dell’embargo verso la Libia” e “in più occasioni” avrebbero caricato anche “bombe fabbricate in Sardegna da RWM e destinate a bombardamenti contro civili in Yemen, oltre a veicoli blindati di fabbricazione polacca, canadese, statunitense, francese utilizzati in combattimento dalla coalizione saudita, durante la guerra yemenita”.
Il motivo per il quale l’Italia non potrebbe intervenire nonostante il contesto critico nel quale si inseriscono questi traffici, stando alla risposta del ministero, è che le armi non vengono più imbarcate, né sbarcate, né “movimentate” dalle “maestranze portuali”. Allo stato attuale, anche a seguito dei ripetuti scioperi indetti per questo motivo nel porto di Genova, armamenti, esplosivi, elicotteri e carri armati non vengono toccati dai lavoratori portuali, restano “stoccati” nelle stive o chiusi dentro a container: “Si tratta di materiali oggetto di transazioni commerciali operate da soggetti non residenti sul territorio nazionale – si legge nella risposta all’interrogazione parlamentare – che non varcano la linea doganale e sono destinati ad altri Paesi”.
Tutto quello che possono fare le istituzioni sarebbe quindi controllare i permessi relativi al transito e, per quanto concerne l’Autorità Portuale, verificare di volta in volta il rispetto delle condizioni di sicurezza dei lavoratori e il corretto stoccaggio delle “merci esplosive”.
Tutti gli enti coinvolti a vari livelli (Prefettura, Questura, Capitaneria di Porto, Polizia di Frontiera Marittima e Agenzia delle Dogane, Autorità Portuale) non potrebbero quindi intervenire a meno di ragioni straordinarie di ordine pubblico o pubblica sicurezza. Il riferimento normativo è l’articolo 16 della legge 185 del 1990, che consente, in nome del rispetto delle transazioni commerciali, il transito di armamenti da e verso paesi terzi in deroga alle limitazioni altrimenti previste dalla legge. Ma c’è chi non ci sta, come i giuristi dello studio legale dell’avvocato Andrea Danilo Conte a cui si sono rivolti i lavoratori portuali: “L’interpretazione dell’articolo 16 della legge 185/90 fatta propria dal sottosegretario si deve contestare – scrivono in una nota – (È una deroga che) non riguarda le violazioni dei principi costituzionali e di trattati internazionali che impongono: il rispetto dell’art. 11 della Costituzione; il divieto di transito di armi verso Paesi nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo; verso Paesi in stato di conflitto armato o responsabili di gravi violazioni di diritti umani”. In altre parole, nel rispetto del principio della “gerarchia delle fonti” ci sono leggi “superiori”, di natura costituzionale o internazionale, che non possono essere eluse con norme di rango “inferiore”.
Anche gli esperti dell’Osservatorio sulle armi nei porti europei Weapon Watch si dicono sbalorditi dalle argomentazioni fatte proprie dal Ministero: “Non solo rimane, autorevolmente ribadita, la sostanziale violazione delle norme della Legge 185/1990 e del Trattato internazionale sul commercio delle armi convenzionali – scrivono sul portale che monitora i traffici di armi – ma stupisce la tesi per la quale la ‘non applicabilità’ della legge venga giustificata dall’esistenza di un ‘confine doganale’, immaginaria linea di demarcazione che posizionerebbe fuori dalla competenza delle autorità italiane la nave Bahri stracarica di armi ed esplosivi che attracca a pochi metri dalle case del quartiere di Sampierdarena”.
Diversamente da quanto sostenuto da Manlio Di Stefano a nome del ministero degli Esteri, secondo la tesi di Weapon Watch leggi e trattati non solo “imporrebbero al Governo di vietare la vendita di armi a Paesi in guerra”, ma permetterebbero anche di “impedire il transito di quelle che altri paesi hanno venduto ai contendenti, nel rispetto dell’articolo 11 della nostra Costituzione”. Intanto, il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali coglie l’occasione per rilanciare la sua vertenza: “La libertà delle armi di transitare in nome del libero commercio – dichiarano a ilfattoquotidiano.it – sembra più tutelata di quella dei lavoratori di fare obiezione di coscienza nel rispetto dei diritti umani, della sicurezza sul lavoro e delle leggi che dovrebbero regolare il commercio degli armamenti. Continueremo la nostra lotta ancora più consapevoli della necessità di allargarla a livello internazionale in rete con altri lavoratori dei porti”.
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