A torto o a ragione McKinsey è considerata la società di consulenza più prestigiosa al mondo. Qualche anno passato nei suoi uffici apre spesso le porte a prestigiose carriere manageriali, anche grazie alla vasta e potente rete di networking che mantiene saldi i legami tra dipendenti ed ex. Sono molti i capi d’azienda che amano ricordare il loro trascorso nel gruppo statunitense. Tra quelli italiani, l’attuale amministratore delegato di Leonardo ed ex numero uno di Unicredit Alessandro Profumo, l’ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo ed ex ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera o Vittorio Colao, ministro per la Transizione digitale nel governo Draghi ed ex capo di Vodafone. Come per tutte le società di consulenza, il lavoro di McKinsey è quello di suggerire alle aziende strategie per ridefinire i loro modelli di business e fare più utili. Benché le presentazioni in power point consentano di sbizzarrirsi con la fantasia, l’impressione è che alla fine la ricetta sia spesso la stessa: delocalizzare, tagliare personale e ridurre gli stipendi. McKinsey ha però tra le sue peculiarità anche quella di presentarsi ai suoi clienti, e all’opinione pubblica, come una società ispirata da valori profondi e radicati, affermando di agire in base a principi che dovrebbero “rendere il mondo un posto migliore”. La società ad esempio non accetta come clienti i produttori di armi.

Uscito lo scorso ottobre negli Stati Uniti (non esiste ancora una traduzione italiana) il libro When McKinsey comes to town, scritto dai giornalisti investigativi del New York Times Walt Bogdanich e Michael Forsythe racconta una storia un (bel) po’ differente. I due giornalisti si sono avvalsi tra l’altro delle testimonianze di un centinaio di dipendenti ed ex del gruppo. Dalla colossale bancarotta di Enron alla crisi dei mutui subprime, dalle epidemie di dipendenza da oppioidi, alla diffusione del fumo di sigaretta, sono molti i disastri finanziari e/o sociali in cui Mckinsey fa capolino. Raramente, precisano gli autori, con implicazioni legali. Ma quello che emerge è qualcosa forse scontato ma in contrasto con i principi propagandati: i profitti prima di tutto.

Questa la premessa dei due autori: “Poiché McKinsey non rende nota la lista dei suoi clienti né i consigli che ha dato, i cittadini statunitensi e, in misura crescente del mondo intero, non possono essere consapevoli della profonda influenza che la società di consulenza ha avuto ed ha sulle loro vite, alle loro retribuzioni alla qualità dell’assistenza medica che ricevono e all’educazione a cui accedono i loro figli”. “La cultura della segretezza è la base su cui è costruito questo business” scriveranno poi i due autori nell’epilogo. Ispirata dalla convinzione che il “mercato fa sempre meglio”, la società di consulenza, ha ad esempio avuto un ruolo nel plasmare politiche come la privatizzazione dei servizi sanitari e nel taglio dei budget per la sanità, nell’adozione di pratiche finanziarie spregiudicate, sfociate nella crisi del 2008, nell’aumento della conflittualità tra compagnie assicurative e i loro clienti con la riduzione dell’entità dei rimborsi effettivamente versati.

Una delle vicende più note è quella del lungo lavoro svolto da McKinsey con la società farmaceutica Purdue, produttrice del farmaco antidolorifico oppioide Oxycontin, che tra il 2004 e il 2019 ha pagato commissioni per poco meno di 84 milioni di dollari. La dipendenza da questo medicinale, non di rado degenerata in quella da eroina e/o fentanyl, ha causato 700mila vittime solo negli Stati Uniti. McKinsey ha elaborato strategie per facilitare le prescrizioni del farmaco, immettere sul mercato confezioni con maggiore quantità del prodotto, sminuirne gli effetti collaterali, screditare le testimonianze dei genitori di giovani vittime. La società non ha mai ammesso di aver tenuto comportamenti sbagliati ma ha pagato 641 milioni di dollari per chiudere i contenziosi legali sulla vicenda.

Valori in fumo – Da 70 anni McKinsey è consulente dell’industria del tabacco. Nel 1956 iniziò la collaborazione con Philip Morris, dopo aver consigliato una riduzione dell’organico la società iniziò ad occuparsi anche delle strategie per vendere più sigarette. In particolare l’industria del tabacco iniziò a dosare la nicotina nei quantitativi più idonei per creare dipendenza tra i consumatori. Nel 1964 vennero resi pubblici gli studi che mostravano una diretta correlazione tra fumo e cancro al polmone, probabilmente già ben noti ai produttori di sigarette. Negli anni seguenti McKinsey fornì lo stesso servizio a British American Tobacco e R.J. Reynolds a cui consigliò di investire il più possibile in strategie di marketing per rivitalizzare i suoi marchi (Camel soprattutto) prima che entrassero in vigore regole più restrittive per la pubblicizzazione delle sigarette. E mentre aiutava le aziende a vendere più sigarette la società incassava commissioni dalle agenzie governative e dagli ospedali, consigliando loro come ridurre i costi della sanità appesantiti anche dalle patologie legate al fumo.

Nel 2006 la giudice statunitense che si era occupata delle pratiche dell’industria del tabacco emise una sentenza di 600 pagine. Vi si legge tra l’altro: “I dirigenti delle aziende erano a conoscenza dei danni provocati dal fumo da almeno 50 anni. Nonostante questa consapevolezza hanno costantemente e ripetutamente, con furbizia e inganno, negato queste evidenze al pubblico. Hanno promosso e venduto i loro prodotti letali con zelo avendo come unico obiettivo il successo finanziario senza alcuna considerazione per la tragedia umana e per i costi sociali che questo successo comportava“. Dieci anni dopo questa sentenza, nota il libro, McKinsey era ancora consulente di Philip Morris (diventata Altria) per aiutarla a vendere più sigarette. La società ha tra i suoi clienti anche Juul, il più grande produttore di sigarette elettroniche.

A tutto gas – Un altro terreno di caccia di McKinsey è l’industria petrolifera. Tra i clienti di McKinsey si annoverano Exxon Mobil, Shell, Chevron, British Petroleum, la saudita Aramco, la russa Gazprom, la venezuelana Pdvsa oltre alla compagnia carbonifera australiana Bhp. Tra i principi a cui dice di ispirarsi la società c’è anche “la protezione del pianeta” ma l’attività svolta per queste società non sembra essere stata ispirata dall’obiettivi di ridurne l’impatto sull’ambiente. Anzi, in più di un’occasione il lavoro è stato quello di aumentare il più possibile la produzione di giacimenti di fonti fossili, incluso la più inquinante di tutte ovvero il carbone. Nel 2020 tra i clienti di McKinsey non compariva nessuna società impegnata esclusivamente nello sviluppo di fonti rinnovabili. L’opportunità di continuare a lavorare per l’industria petrolifera è stata messa in discussione da un gruppo dei dipendenti più giovani della società che non hanno però trovato supporto nei partner senior. “Se non lo faremo noi lo farà Boston Consulting” è stata la risposta tranchant.

Conflitto d’interesse in pillole – Un altro degli ambiti in cui McKinsey è molto attiva e fa una buona fetta dei suoi guadagni è la sanità. In più occasioni la società è stata consulente degli enti governativi e di vigilanza (in particolare la Food and drug administration statunitense) e contemporaneamente delle società farmaceutiche e ospedali privati. Durante i 4 anni della presidenza Trump, ad esempio, la società ha incassato 77 milioni di dollari dalla Fda mentre negli ultimi 3 anni circa 400 milioni dalle 9 case farmaceutiche che assiste. Il potenziale conflitto di interessi viene scansato dalla società affermando che i diversi team non condividono informazioni tra di loro. In realtà proprio è questa promiscuità che rende i consulenti McKinsey particolarmente appetibili per chi deve fare approvare un farmaco e incassare miliardi dalla sua vendita. Il libro narra il caso di Biogen e del suo costoso farmaco aducanumab contro l’Alzheimer. Nonostante risultati deludenti della fase di sperimentazione, la Fda ha approvato il medicinale. McKinsey, consulente di entrambe le parti, ha sostenuto vigorosamente il lancio del farmaco che, secondo gli esperti, ha generato false speranze per milioni di malati aumentando a dismisura, e inutilmente, i costi per i programmi di assistenza sanitari. Come consulente del governo britannico McKinsey ha suggerito tagli a spesa e personale del servizio sanitario nazionale e un maggior ricorso ad operatori privati, indicando tra i soggetti più idonei alcuni suoi clienti.

Resistere, resistere, resistere Le pratiche adottate dalla compagnia assicurativa statunitense Allstate su suggerimento di McKinsey hanno rivoluzionato il settore. In meglio per gli azionisti, in peggio per i clienti. La società ha elaborato strategie per risparmiare il più possibile sui rimborsi. La compagnia assicurativa si è rifiutata di fornire ai giudici che esaminavano una vertenza le “ricette” elaborate dai consulenti nonostante una multa di 25mila dollari al giorno per ogni giorno di ritardo, pagando alla fine 7 milioni di dollari. Alla fine le indicazioni sono venute alla luce. Semplici, in fondo. Cercare di concordare rimborsi veloci ma ridotti, al di sotto di quelli previsti nelle polizze, nel 90% dei casi. Nel rimanente 10% la sollecitazione è stata di ingaggiare un legale e trascinare la vertenza il più in lungo possibile. Poiché questo modo ruvido di porsi nei confronti dei propri clienti ha consentito ad Allstate di aumentare sensibilmente i profitti e quindi i dividendi per i soci, la tecnica si è diffusa a macchia d’olio in tutta l’industria assicurativa.

La democrazia può attendere – Sono diversi i contratti di consulenza di McKinsey con governi non propriamente democratici o con società ad essi riconducibili. Molti i lavori con le agenzie cinesi e con società riconducibili al governo centrali. Il caso più discutibile è probabilmente quello della collaborazione con il regime del principe saudita Mohamed bin Salman, ritenuto dalla Cia il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khassoggi. In particolare la società ha collaborato allo sviluppo di sistemi di monitoraggio del dissenso espresso attraverso i social media. Dopo l’uccisione di Khassoggi, e a differenza di altre società occidentali, McKinsey non ha ritenuto necessario interrompere i suoi affari nel paese mediorientale.

La replica di McKinsey – Il libro, che ha da poco ispirato anche un caustico editoriale del commentatore di Bloomberg Adrian Wooldridge dal titolo “I passi falsi di McKinsey evidenziano un problema dell’intero settore”, ha indotto la società ad emettere una nota sulla questione. Secondo l’azienda di consulenza il libro “travisa radicalmente la nostra società e il nostro lavoro”. Viene quindi negata qualsiasi implicazione nella crisi finanziaria del 2008 e si rimarca come le consulenze della società abbiano contribuito a far crescere il Pil globale, “ridurre dell’80% le emissioni di Co2″. McKinsey ricorda di aver lavorato anche per il New York Times. “Per quasi 100 anni, la nostra azienda ha lavorato duramente per anteporre il successo di altre istituzioni al nostro. Anche se non siamo perfetti, crediamo che questa missione sia più importante che mai“, conclude la nota.

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