Quello che si chiude è stato un anno molto difficile per i mercati, il peggiore dal 2008. Gli investitori non hanno quasi avuto scampo visto che i cali hanno interessato un po’ tutti i comparti, circostanza non comune. Negli Stati Uniti le azioni sono arretrate del 20% (indice S&P500) e le obbligazioni sono scese del 17%. In Europa la musica non è stata molto diversa. Francoforte ha perso il 13% così come Milano, Parigi il 10%. Si è salvata Londra che archivia i 12 mesi sugli stessi valori con dell’inizio. I prezzi dei titoli di stato sono scesi e i rendimenti (fissi in valore assoluto ma espressi come percentuale del titolo) saliti. In Asia la borsa giapponese ha accusato una flessione del 11%, quella di Hong Kong del 15%. Dopo oltre un decennio di politiche ultra espansive con tassi a zero, o addirittura negativi, le grandi banche centrali (Federal Reserve, Banca centrale europea, Bank of England e Bank of Japan) hanno avviato un cambio di rotta. Chi prima, chi dopo la stretta monetaria è stata avviata o almeno annunciata (Giappone). A marzo la Fed ha iniziato ad alzare i tassi che ora sono arrivati fino al 4,75% il livello più alto dal 2014. La Bce si è mossa più tardi, i rialzi sono iniziati in luglio e il costo del denaro in Europa è ora al 2,5%. Lo sfasamento temporale è alla base dell’andamento altalenante del rapporto euro-dollaro. La moneta europea finisce l’anno con un calo di quasi il 6% a 1,06 dollari ma durante l’estate, e fino a novembre, l’euro è scivolato al di sotto della parità, cosa che non accadeva da 20 anni. Tra le poche valute che hanno guadagnato nel cambio con il biglietto verde ci sono il real brasiliano (+ 5.5%), il peso messicano (+ 5,3%), il sol peruviano (+ 4,9%) e il rublo russo (+ 3,3%).

Quando i tassi sono bassi e le banche centrali comprano gigantesche quantità di titoli di stato e obbligazionari sui mercati (quantitative easing) ci sono più soldi in circolazione che devono essere investiti. Questo tende a spingere il valore di tutti gli asset, dalle case alle azioni o alle criptovalute. In questi anni non sono mancati avvertimenti sui rischi di bolla che l’abbondanza di liquidità avrebbe prodotto sui mercati. Soprattutto le borse si erano talmente abituate a queste condizioni da sprofondare in pesanti cali ogni qualvolta le banche centrali hanno accennato a voler sospendere o ridurre le loro operazioni di quantitative easing. “Infinity QE”, il Qe infinito, lo hanno ribattezzato gli analisti più attenti, ossia una pratica che una volta avviata diventa quasi impossibile interrompere senza provocare sconquassi. La Fed ci aveva provato nel 2018 provocando un “mini crash” dei listini e facendo quindi retromarcia. Poi il Covid ha congelato le cose. Ora però le autorità monetarie sono pressate dall’inflazione tornata in zona 10% sia in Europa che negli Stati Uniti. Aumentare i tassi è uno dei modi per contrastare il fenomeno e le banche centrali sono costrette a scegliere tra il minore dei mali. O almeno ci provano.

Se si considerano i livelli di tensione geopolitica raggiunti in alcune fasi seguite all’invasione russa dell’Ucraina i mercati hanno mostrato un atteggiamento più che sobrio. Il “rischio apocalisse” che è aleggiato in modo preoccupante in alcuni frangenti non sembra essere mai stato preso seriamente in considerazione dagli investitori e incorporato nei prezzi. Sapienza, incoscienza o dipendenza dalla “droga monetaria” che obnubila la realtà? In quest’ultimo caso si avrebbe una conferma di quanto sia ingarbugliata la matassa che le banche centrali stanno cercando di sbrogliare.

I casi dell’anno, Big Tech, Tesla e Credit Suisse – Nell’auto elettrica di Elon Musk si è spenta la luce. Le azioni della società hanno perso il 70% del loro valore nel corso dell’anno. La valutazione del titolo era particolarmente spinta e risente del calo dell’indice generale (Nasdaq meno 33%) ma la società soffre anche la dedizione del suo fondatore alla nuova causa: Twitter. Il social è stato comprato da Musk lo scorso ottobre per 44 miliardi di dollari e per ora sembra solo aver assorbito risorse costringendo l’imprenditore a vendere fette delle sue partecipazioni in Tesla accentuando il ribasso. Di questo passo quello tra le due società rischia di rivelarsi un abbraccio soffocante.

A inizio ottobre a Zurigo, sede del colosso bancario Credit Suisse, si è sudato freddo. Sul gruppo, in difficoltà per le ingenti perdite accumulate con i crolli di Greensill e Archegos, si sono addensate voci incontrollate di gravi e imminenti problemi creando un allarme che ha innescato una massiccia ondata di disinvestimenti rischiando di portare la liquidità al di sotto dei livelli regolamentari. La mini “corsa agli sportelli” si è fermata ma il gruppo è stato costretto a varare un aumento di capitale da 4 miliardi di franchi svizzeri, concluso l’8 dicembre, e sottoscritto principalmente da investitori mediorientali. Il 2022 si chiude per la banca con una predita del valore di borsa del 68%.

È stata dura anche per loro, i colossi del web che negli ultimi anni avevano macinato utili e rialzi di borsa. Finito l’effetto Covid, con i lockdown che favorivano gli acquisti e le attività on line, i profitti hanno iniziato a rallentare e le quotazioni a scendere. In un anno Amazon ha dimezzato il suo valore perdendo per strada circa 900 miliardi di capitalizzazione. Alphabet (Google) ha perso oltre il 30%, Meta (Facebook) addirittura il 62% con il visionario progetto metaverso che fatica a decollare. Un po’ meglio hanno fatto Microsoft e Apple che chiudono comunque l’anno a – 25%.

L’era glaciale delle criptovalute Là fuori c’è un brutto mondo. L’incontro con la realtà è arrivato anche per le monete digitali che si sono scoperte sottoposte esattamente alle stesse leggi che governano gli altri prodotti finanziari. Nello specifico agli umori delle banche centrali. Il bitcoin chiude l’anno intorno ai 16.500 dollari con una perdita di valore del 65%, Ether ha accusato un crollo del 68%. Come se non bastasse l’autunno ha portato con se la bancarotta della piattaforma Ftx e della collegata Alameda gestite con pratiche fraudolente dal fondatore Sam Bankman-Fried. Le criptovalute nascono e si affermano dopo la grande crisi finanziaria del 2008 proponendosi come sistema monetario di pagamento alternativo a quelli tradizionali. Ma non sono mai veramente riuscite ad imporsi in questo ruolo limitandosi ad assumere la funzione di investimento speculativo. La visione che sottendono è quella secondo cui i mercati sono pienamente in grado di autoregolarsi e correggersi e non necessitano di regolatori e interventi esterni. Per ora la legge di nessuno è sembrata essere più che altro la legge del più forte.

Materie prime a tutto gas È stato l’anno del gas, vero protagonista delle commodities con i suoi prezzi impazziti. Dopo mesi di montagne russe le quotazioni si sono riportate sui valori con cui l’anno si era aperto, in Europa tra gli 80 e i 90 dollari al megawattora. Prezzo alto rispetto alle medie degli ultimi anni ma lontano dai 340 euro visti a fine agosto. Il petrolio (brent) chiude il 2022 con un piccolo guadagno (+ 3%) ma a fine giugno un barile costava quasi il doppio rispetto allo scorso gennaio. Il rame regala al 2022 il 13% del suo valore. Il metallo rosso è quello più strettamente legato all’andamento dell’economia della Cina, di gran lunga il principale consumatore, che vive una fase di rallentamento. Tra le materie prime alimentari il grano chiude l’anno con un modesto + 1,7%, incremento contenuto se si considerano i problemi che interessano le forniture che provengono dall’ Ucraina e buona notizia nell’ottica degli approvvigionamenti alimentari dei paesi più poveri. Da segnalare la caduta delle quotazioni del legname (- 67%) a evidenziare un rallentamento della domanda da parte del settore delle costruzioni.

Un 2023 che si gioca nel carrello della spesa- Il copione del nuovo anno si annuncia come il secondo tempo del 2022: “Banche centrali vs Mercati”. La trama è semplice, capire se Fed e Bce tireranno dritte per la loro strada o meno e con quale velocità e decisione. A dettare i tempi saranno anche i dati sull’inflazione. Un raffreddamento dei prezzi, che le ultime rilevazioni lasciano intravedere, darebbe spazio a politiche meno aggressive o addirittura per una “pausa di riflessione monetaria”. I mercati ci sperano, un cambio di atteggiamento di Washington e Francoforte sarebbe salutato con un’immediata ripresa dei listini. In generale sembra difficile ipotizzare un ritorno all’inflazione pressoché inesistente a cui siamo stati abituati nell’ultimo anno. La Cina ha smesso di essere un motore disinflazionistico globale, anche a causa delle sue evoluzioni demografiche e l’energia a costi relativamente bassi non la rivedremo per un bel po’.

Ci sono incognite che esulano dinamiche propriamente economico finanziarie. La prima è naturalmente la guerra in Ucraina. Non c’è bisogno di dire che un allentamento della tensione favorirebbe anche una discesa dei prezzi energetici e una ripresa della clima di fiducia e quindi dei consumi e dei profitti delle aziende. L’altra, forse ancora più imperscrutabile è la Cina. Nel immediato il paese deve fronteggiare una nuova e potente ondata di contagi da Covid dopo aver abbandonato la sua politica di severe restrizione in favore di una gestione “ordinaria” della pandemia. Questo avviene mentre il paese è alla prese con un complicato cambiamento del suo modello di crescita (più domanda interna e meno export ed investimenti) e con una grave crisi del comparto delle costruzioni. Per quello che può valere secondo un sondaggio realizzato dall’agenzia Bloomberg tra i principali investitori globali, il 71% si attende una ripresa dei listini azionari nel corso del 2023.

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