Tutti sappiamo che il clima del pianeta sta progressivamente diventando più caldo. Questo è almeno in parte dovuto alle attività industriali che oltre a riscaldare direttamente il pianeta immettono nell’atmosfera gas che intrappolano la radiazione infrarossa normalmente emessa dalla Terra. Gli effetti del riscaldamento globale sono estensivi e non completamente prevedibili; certamente includono una alterazione delle precipitazioni piovose e lo scioglimento progressivo dei ghiacciai, molto evidente quando se ne confrontano i fronti attuali con quelli fotografati nel secolo scorso.

Esiste però un rischio ulteriore, non legato direttamente al clima: il rilascio nell’ambiente di virus, batteri e parassiti che sono stati sequestrati nel ghiaccio per molte migliaia di anni. La più grande potenziale sorgente di microorganismi “preistorici” è il permafrost, il suolo ghiacciato che si trova al di sotto delle distese glaciali. Il permafrost artico dell’Alaska e della Siberia è quello che va più rapidamente incontro alla fusione.

Come sempre in questi casi è importante evitare sia gli inutili allarmismi che la sottovalutazione del problema. Certamente la liberazione di microorganismi patogeni nelle acque dei fiumi artici è non solo possibile ma già in atto; ad esempio nel 2016 si è diffusa localmente in Siberia, nella penisola di Yamal, una epidemia di antrace, malattia che sembrava scomparsa in quella regione, grazie alla vaccinazione del bestiame, praticata dal 1940. Si ritiene che le spore del batterio Bacillus anthracis siano state rilasciate dalla carcassa di una renna morta di antrace molto decenni fa, e fino ad oggi rimasta congelata nel permafrost con i suoi batteri e spore.

È inoltre certo che campioni di suolo prelevati nel permafrost ospitano una ricca fauna batterica e virale, rimasta congelata per centinaia o migliaia di anni, che può essere riattivata in laboratorio, anche se fino ad ora non sono stati rinvenuti in questo modo germi patogeni per l’uomo.

È molto difficile stimare il rischio di epidemie derivante dal disgelo del permafrost artico: infatti, se è certo che il permafrost contiene e può rilasciare milioni di specie batteriche e virali a noi sconosciute, è anche certo che soltanto una minima percentuale di queste è potenzialmente in grado di infettare l’uomo; ma anche una sola specie potrebbe essere capace di causare una pandemia estesa. Come sempre, nella medicina pubblica la gravità di una malattia infettiva non è proporzionale alla sua probabilità: un evento rarissimo, estremamente improbabile, può causare conseguenze drammatiche. Per converso gli effetti dannosi per la salute pubblica del rilascio dal permafrost di sostanze chimiche (metano, composti del mercurio o dell’arsenico, etc.) sono proporzionali alla quantità di sostanza rilasciata.

Certamente sarebbe preferibile che il permafrost rimanesse congelato, e questa è solo una tra le molte ragioni che dovrebbero spingerci a limitare al massimo la produzione di gas che causano effetto serra; ma al momento il riscaldamento globale è già in atto, e la riduzione delle attività industriali che lo causano è difficile per carenza di alternative e per la scarsa appetibilità politica delle alternative disponibili; quindi nell’immediato è essenziale lo studio dei microorganismi presenti nel permafrost.

Articolo Precedente

Hiv, la nuova sofisticata tecnica messa a punto contro il virus per un possibile un vaccino

next
Articolo Successivo

Malattia del sonno, lo studio su un nuovo farmaco “con un’efficacia elevatissima”

next