di Roberto Iannuzzi *

Il tanto atteso incontro fra il presidente americano Joe Biden e il suo omologo cinese Xi Jinping ha infine avuto luogo questa settimana a margine del G20 a Bali. Il colloquio ha avuto un tono costruttivo, ma non c’è da essere ottimisti. Sebbene esso abbia posto un freno al rapido deterioramento nei rapporti fra le due superpotenze, nessun cambiamento strutturale è avvenuto fra Washington e Pechino. Ciò traspare anche dalle differenti letture ufficiali che i due paesi hanno dato dell’incontro. Molto dettagliata quella cinese, più scarna e telegrafica quella americana.

In quest’ultima si legge che gli Usa continueranno a “competere vigorosamente” con la Cina allineando gli sforzi con alleati e partner nel mondo. Biden ha tuttavia ribadito che tale competizione dovrebbe essere gestita responsabilmente e non degenerare in un conflitto. La lettura cinese ha invece sottolineato che i rapporti Usa-Cina non dovrebbero essere un gioco a somma zero, nel quale una controparte trionfa o prospera a spese dell’altra. In essa si afferma che la Cina “non ha intenzione di sfidare o rimpiazzare gli Stati Uniti”. Ma dalla versione cinese si evince anche che Pechino non si fida di Washington, in particolare per quanto riguarda Taiwan, che continua a rappresentare la prima fonte di tensione fra le due superpotenze.

Xi ha sottolineato che la questione di Taiwan è “il fondamento politico delle relazioni Cina-Usa e la prima linea rossa che non deve essere oltrepassata” nei rapporti fra i due paesi. “Chiunque tenti di dividere Taiwan dalla Cina viola gli interessi fondamentali della nazione cinese”. Xi ha aggiunto che la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan e l’indipendenza taiwanese “sono inconciliabili come l’acqua e il fuoco” osservando (ed evidenziando così la sfiducia cinese nella Casa Bianca) che “ci auguriamo che la controparte statunitense faccia corrispondere alle parole i fatti”.

Nel frattempo, il Congresso Usa sta discutendo un pacchetto di aiuti militari che garantirebbe annualmente a Taiwan 1 miliardo di dollari di munizioni e 2 miliardi di nuove armi (solo Israele riceve di più su base annuale). L’idea è di armare Taiwan in previsione di un’invasione cinese, così come è stato fatto con l’Ucraina. A ottobre, il comandante della marina militare Usa aveva ammonito che il Pentagono deve prepararsi alla possibilità che la Cina invada Taiwan entro il 2024.

Dal canto suo il presidente Biden, oltre a esprimere “preoccupazione” per le presunte violazioni cinesi dei diritti umani in Xinjiang, Tibet e a Hong Kong, ha anche condannato le pratiche economiche “contrarie all’economia di mercato” adottate da Pechino, che danneggerebbero “i lavoratori e le famiglie” in America e nel mondo. C’è tuttavia da osservare che, in materia di rispetto dell’economia di mercato, gli Usa recentemente non si sono particolarmente distinti, né nei confronti della Cina né riguardo al resto del mondo.

Non solo su Taiwan, ma anche in tema di mancata riduzione dei dazi e di restrizioni all’esportazione di microchip e semiconduttori, Biden si è dimostrato più “falco” di Trump, e non soltanto con Pechino. Sia il Chips and Science Act, volto a costruire un’autosufficienza americana nella fabbricazione di semiconduttori e in altre tecnologie avanzate, sia l’Inflation Reduction Act, che offre tassazione ridotta e incentivi energetici alle compagnie che investono negli Usa, hanno ricevuto aspre critiche da parte di alleati come Francia, Germania, Olanda, Giappone e Corea del Sud, perché rappresenterebbero una violazione delle regole commerciali introducendo distorsioni nel mercato.

Tali mosse equivalgono, secondo un recente editoriale dell’importante rivista Noema, letteralmente a uno smantellamento della globalizzazione costruita nei passati decenni – qualcosa di cui Trump aveva semplicemente “twittato” e che Biden starebbe davvero compiendo.

Infine, non c’è da illudersi sulla possibilità che Biden possa portare Xi dalla propria parte sul conflitto russo-ucraino. Da parte cinese vi è piena consapevolezza del fatto che siamo di fronte a una guerra Nato-Russia per procura. Lo si evince ancora una volta dalla lettura cinese dell’incontro Biden-Xi dove, oltre a esortare ad un negoziato russo-ucraino, i cinesi invocano un dialogo complessivo fra Usa, Nato ed Ue da un lato e la Russia dall’altro. Pechino è ben consapevole del fatto che, non solo la recente National Security Strategy dell’amministrazione Biden descrive la Cina come “la sfida geopolitica più consequenziale per l’America”, ma lo stesso Strategic Concept adottato a giugno dalla Nato dipinge le ambizioni cinesi come una “sfida” agli interessi occidentali. Lo stesso documento afferma che la partnership strategica fra Cina e Russia e i loro tentativi di “minare l’ordine internazionale basato su regole” vanno contro gli interessi occidentali.

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha ammonito che far vincere la Russia in Ucraina manderebbe un messaggio sbagliato alla Cina facendo capire che con il ricorso alla bruta forza militare i regimi autoritari “possono raggiungere i loro obiettivi”. Pechino dunque sa che se Mosca dovesse cadere sarebbe la Cina a finire nel mirino occidentale.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).

Twitter: @riannuzziGPC
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