La Cop26 di Glasgow aveva chiesto di rafforzare i contributi nazionali alla riduzione delle emissioni. Nessun progresso c’è stato in tale direzione. E, con le guerre energetiche, la crescita di un solo grado e mezzo è ormai una illusione: una Terra più calda di due o tre gradi è una ipotesi non inverosimile. Dopo la “curiosa indifferenza” degli anni ’90, il “negazionismo consapevole” dei primi dieci anni del secolo e la “grancassa finanzcapitalista” degli anni ’10, la risposta alla crisi climatica è entrata nella fase della “depressione caotica”.

Trent’anni fa un dotto influencer mediatico mi disse: “Perdi tempo: l’effetto serra è già fuori moda. Non hai scritto proprio tu che già un secolo fa Arrhenius aveva spiegato questa bizzarria?”. In effetti, il manoscritto che costui mi aveva restituito con l’amichevole consiglio di cestinarlo narrava anche le intuizioni del premio Nobel 1903 per la chimica. Ma il libro intitolato Effetto serra, che pubblicai nel 1994 dopo varie peripezie, aveva un sottotitolo concreto: “Istruzioni per l’uso”. E, con il senno di cui sono piene le fosse, posso affermare che l’umanità non ha usato bene l’effetto serra.

Vent’anni fa, un premio Nobel 2021 chiese aiuto alla revisione di un importante rapporto scientifico. Era la relazione finale che l’amministrazione Bush (figlio) aveva affidato a undici augusti scienziati e che altri tredici esperti di alto profilo erano chiamati a valutare, come si fa nei paesi rispettosi del sapere scientifico: Climate Change Science: an analysis of some key questions, National Academy of Sciences, 2001. Il rapporto non negava la circostanza che “i gas serra si stanno accumulando nell’atmosfera a causa delle attività umane, provocando l’aumento delle temperature dell’aria e degli oceani. E le temperature, infatti, sono in aumento”. Ma metteva soprattutto in luce l’incertezza delle stime. E dei conseguenti scenari.

Gli augusti scienziati non avevano torto. Più il modello è complicato e dettagliato, meno è capace di ridurre i margini di incertezza degli scenari climatici. E se l’incertezza è sovrana, il senso del messaggio al presidente che sanò la ferita dell’11 settembre invadendo l’Afghanistan diventa: “Insomma, prima di fare, meglio studiare e studiare meglio”. Un esplicito buffetto alla congregazione dell’Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change.

Nei primi vent’anni del millennio, gli studiosi hanno studiato e, ansiosi d’innescare il dominio del “fare”, hanno spalancato la porta alla soluzione finanziaria. Con la benedizione obamiana e il Nobel per la Pace 2007, condiviso in parti uguali tra Al Gore e l’Ipcc, nacque l’idea che solo l’economia poteva costringere il clima a più miti consigli. Una trovata indiscussa e indiscutibile, poiché l’economia è la religione del nuovo millennio. Le parole del più ardito economista del Novecento, John Maynard Keynes, avrebbero dovuto far riflettere: “Il lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti, nel lungo termine saremo tutti morti”. Nessuno però meditò sulle virtù della finanza, intenta soprattutto a massimizzare l’utile a breve. E sulle previsioni economiche, da sempre ben più aleatorie e fallaci degli scenari climatici.

Dopo le scorie nucleari, nulla è più persistente del riscaldamento globale per incremento dell’effetto serra. Gli oceani hanno accumulato finora nove decimi del calore extra generato dai gas di serra emessi dall’uomo, ma stanno lentamente rispondendo. E la risposta è affatto spiacevole, come iniziamo a sperimentare. La memoria del clima è lunga, mentre sono gli affari correnti a dettare l’agenda locale e mondiale, focalizzata sul breve periodo. E l’impero reticolare che bada solo agli affari correnti del pianeta celebra il rito della Cop, la periodica conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, così come la Chiesa nell’antichità radunava i suoi vescovi nel sinodo ecumenico.

La Cop27 egiziana somiglia al secondo Concilio di Nicea (anno 787) che vietò ai vescovi di raccogliere oro o denaro. Secondo coloro che hanno messo il futuro del clima nelle mani della finanza, “il sistema finanziario deve superare i vincoli interni ed esterni per diventare un fattore critico di trasformazione in tutti i settori, rendendo i mercati finanziari più efficienti”. Una grida che suona come il divieto di Nicea in quanto a efficacia, efficienza, durevolezza.

Nel 1992, gli studiosi servirono sul piatto dei politici tre opzioni: mitigare, adattarsi, nulla fare. La terza è stata l’opzione regina, dapprima perseguita con l’indifferenza, poi consapevolmente, quindi creativamente. E, in questo ventennio post-pandemico molto si dice ma nulla si fa; anzi, si fa solo ammuina. Un attivismo finalizzato a mantenere vivo il modello di consumi che ha prodotto sì benessere e ricchezza, distribuita e soprattutto concentrata, ma primo responsabile degli abusi dell’effetto serra. Tacendo, per esempio, che le guerre vaporizzano qualunque timido tentativo di mitigazione, come dimostrava una ricerca pubblicata nel 2019: Costi nascosti del carbonio della “guerra ovunque”: logistica, ecologia geopolitica e impronta di carbonio dell’esercito americano (Belcher & Alii, Hidden carbon costs of the “everywhere war”: Logistics, geopolitical ecology, and the carbon boot-print of the US military, Transactions of the Institute of British Geographers, giugno 2019).

“Pessimismo e fastidio”, biascicava Rufus Nocera dei Cavalli Marci, un iconico gruppo comico di fine millennio. Una battuta perfetta, sintesi dell’umore che producono le notizie sulla Cop27: depressione caotica. Possiamo prevedere dove ci porterà il carbon boot-print con la stessa certezza con cui sappiamo prevedere l’effetto di un battito d’ali di farfalla, l’archetipo del caos secondo Edward Lorenz. Non possiamo ragionevolmente escludere che produrrà un tornado. Dove, non si sa.

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