La storica Giulia Albanese

Il centenario della Marcia su Roma, che arriva tra le dispute sulle vecchie e nuove definizioni del (neo-/post-) fascismo (storico). Occorre cercare di ritornare alla complessità storica e, nondimeno, guardare al passato mossi dalle domande del presente. Ilfattoquotidiano.it ne ha parlato con Giulia Albanese, storica e studiosa della Marcia su Roma.

Partendo dalla Marcia su Roma come fenomeno storico, che ruolo ebbe rispetto a un prima e un dopo?
La marcia su Roma è stata il punto di arrivo di una strategia di occupazione violenta del territorio che era già iniziata negli anni precedenti. La violenza era cominciata con l’incendio del 1919 alla redazione dell’Avanti, giornale socialista, per poi continuare in modo sempre più incalzante nel 1920, con gli assalti alle sedi sindacali legate alla sinistra e successivamente, in modo più esplicito con l’occupazione delle amministrazioni comunali in Emilia-Romagna, in Veneto e in altre regioni. Più organizzato questo progetto di occupazione dello squadrismo era diventato nell’agosto 1922 come reazione allo sciopero legalitario politiche organizzato dai socialisti contro le violenze squadriste. La marcia su Roma ha quindi rappresentato un punto di arrivo rispetto a una pratica di violenza già in atto e, al contempo, lo strumento della sua legittimazione istituzionale.

Come si è articolata questa prima legittimazione istituzionale?
In quel momento – e dopo aver conferito il ruolo di presidente del Consiglio a Benito Mussolini, nonostante fosse a capo di un partito ancora largamente minoritario – il monarca (Vittorio Emanuele II di Savoia, ndr) consentì alle squadre fasciste di entrare a Roma, legittimando delle milizie private che avevano praticato estese violenze al di fuori del monopolio statale. Le squadre sarebbero poi state ulteriormente legittimate e incluse come milizie volontarie nel quadro statale continuando, tra l’altro, ad agire come minaccia costante contro chiunque manifestasse opposizione al regime – esemplare fu il delitto Matteotti nel 1924. Durante il primo governo di Mussolini, ad esempio, presenziavano a ogni passaggio legislativo in parlamento armate in Parlamento minacciando l’opposizione politica. La legittimazione delle squadre per altro fu anche una radicale rottura costituzionale: se, sulla base dello Statuto Albertino, l’esercito doveva giurare fedeltà al Re, la Milizia giurava invece fedeltà al duce.

A partire dall’esperienza fascista e in rapporto a essa come è cambiato il rapporto con la violenza?
In primo luogo, va sottolineato il ruolo della Prima guerra mondiale, che segnò una profonda discontinuità rispetto alla percezione della violenza in Italia. Il rapporto tra fascismo e violenza fu molto forte e non influenzò solo l’azione politica e squadrista ma, altrettanto, la sua identità. La costruzione dell’uomo fascista si univa alla sua immagine di guerriero e si proiettava verso il desiderio di una sorta di rivoluzione antropologica. Anche per questo, la narrazione della Seconda Guerra Mondiale come “incidente” non ha tenuta storica.

Il coincidere tra l’anno del centenario e l’affermazione della destra sul piano elettorale può avere un peso in termini di narrazione?
Certamente è un caso se Fratelli d’Italia sono andati al governo in questo momento. Senz’altro gli attuali richiami simbolici e retorici al ventennio sono molto gravi e partecipano al fenomeno della deresponsabilizzazione e minimizzazione del fascismo storico; al contempo però va detto e compreso che il quadro storico e politico è radicalmente mutato. È importante non adoperare eccessive semplificazioni secondo la logica della continuità, sia per correttezza storica, sia per una comprensione più efficace della dinamica politica attuale.

Quali crede che siano ancora oggi le principali eredità storiche del fascismo?
Un tema a mio avviso importante è quello relativo al come si pensa la nazione e la cittadinanza. Ovviamente le discontinuità sono enormi rispetto al Ventennio fascista, anche legislativamente e a cominciare dalla Costituzione. Tuttavia, si può riscontrare nel paese, o quanto meno nei suoi rappresentanti politici, una certa difficoltà a fare passi avanti rispetto al riconoscere come pienamente italiani uomini e donne, ragazzi e ragazze, che sono nati e cresciuti qui, ma che hanno genitori non necessariamente di provenienza italiana. Questo è un tema che ha a che fare con il difficile passaggio del Paese da terra di emigrazione a terra di immigrazione. Riguarda però anche il concetto di italianità, fortemente forgiato sotto il regime. In più, il radicarsi di questa idea di italianità ha influenzato anche il nostro modo di affrontare tradizione e cambiamento: discorsi che richiamano la retorica fascista sull’essere italiani ricorrono chiaramente tutt’oggi ed entrano in piena contraddizione con quello che è l’odierno tessuto sociale.

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