A volte anche un piccolo episodio che ci capita risulta veramente illuminante e riassume in maniera magistrale molti concetti, anche difficili. A me, da economista, è capitato con l’inflazione quando sono andato a ritirare la pizza da asporto che avevo ordinato. Accanto alla cassa c’era un avviso, non tanto grande, che informava i clienti che a seguito dell’aumento del costo dell’energia i prezzi delle pizze erano stati aumentati. Improvvisamente mi sono accorto che questo scarno avviso conteneva tutto, o quasi tutto quello che è utile sapere per capire e affrontare la pericolosa trappola dell’inflazione.

In primo luogo, mi sono chiesto mentalmente che cosa accadrà ai prezzi delle pizze quando quelli dell’energia torneranno alla normalità. La mia risposta è stata: nulla, cioè non terneranno indietro. L’incremento di adesso, determinato da cause temporanee, diventerà permanente. Il ristoratore vedrà così trasformarsi una situazione critica per i suoi ricavi in una situazione di relativo vantaggio. L’esperienza ci dice che una volta che i prezzi sono aumentati, raramente torneranno indietro. L’unica possibilità di difesa da parte dei consumatori è ridurre i consumi. È per questo che risulta molto importante cercare di evitare questi aumenti, o almeno di ridurli al minimo. La fase iniziale di contrasto è cruciale.

In secondo luogo, non sono stato in grado di capire di quanto fossero aumentati i prezzi delle tantissime prezzi proposte. Qui il problema è di altro tipo. Essendo l’inflazione un processo complesso, l’economia comportamentale ci insegna che ad ogni passaggio c’è la tentazione da parte degli operatori economici di fare un ritocco, anche piccolo, all’incremento iniziale. È una specie di effetto palla di neve che scendendo dalla montagna tende ad ingrossarsi. Ecco allora che un incremento anche moderato, diciamo del 3% nella prima fase del processo produttivo, può arrivare a raddoppiare per il consumatore finale.

Quale sia stata la manina che ha provocato questa lievitazione diventa impossibile da determinare nella complessità globalizzata dell’economia contemporanea. Ad ogni fase della produzione c’è stato un arrotondamento, verso l’altro naturalmente. Nella confusione generale generata dall’inflazione, qualcuno è tentato con successo di aumentare la sua fetta di reddito. Per esempio il settore della ristorazione, dai dati di categoria, risulta avere un’intensità energetica inferiore al 5%, ma ho l’impressione che i prezzi delle pizze siano aumentati molto di più, diciamo attorno al 10%. Mi sarebbe piaciuto conoscere l’entità dell’aumento, ma non è stato possibile.

E veniamo al terzo aspetto. Il lavoratore dipendente o pensionato, diciamo coloro che hanno un reddito fisso, che si è portato a casa la pizza che ora costa il 10% in più si chiede se anche lui possa difendersi allo stesso modo. Magari potrebbe pensare di chiedere, e di ottenere subito come l’esercente, un aumento dello stipendio o della pensione pari al tasso di inflazione, semplicemente per difendere il suo potere di acquisto. Ma non può per ragioni contrattuali, almeno nel breve periodo. Questo è quello che teme il Presidente della Banca Centrale Christine Lagarde.

Quando l’avvocata-banchiera Lagarde, nata Lallouette, dichiara che stroncherà l’inflazione aumentando il tasso di interesse, si dimentica di dire che la condizione fondamentale è la moderazione salariale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Se, al contrario, i sindacati cominceranno a chiedere di non pagare il conto dell’inflazione, le manovre monetarie serviranno a poco, come la recente esperienza americana dimostra. C’è poi il rischio concreto che portino alla stagflazione degli anni Settanta e primi anni Ottanta. Da studente universitario ho visto il tasso di inflazione al 21%. Tutti cercavano di difendersi dalla corsa dei prezzi mentre la barca affondava.

C’è qualche possibilità di uscire dalle tante trappole psicologiche dell’inflazione, ancora più odiosa perché determinata su scala mondiale dagli effetti della guerra? Probabilmente no, ma qualcosa si può fare. Si potrebbe, per esempio, mettere la questione nelle mani dei consumatori imponendo a chi varia i prezzi di indicare nel cartellino anche quello vecchio. Così hanno fatto alcuni Paesi con il passaggio all’euro con un discreto successo. Questo eviterebbe comportamenti opportunistici da parte di operatori economici disonesti. Una seconda misura, più in sintonia con il nuovo governo nazionalista e statalista, potrebbe essere quella di imporre per decreto un limite all’aumento dei prezzi, magari in settori non esposti alla concorrenza internazionale come quello dei servizi e delle prestazioni professionali. Sarebbe un sollievo per tutti sapere che il prezzo della pizza nel 2023 non potrà aumentare più di un certo valore, diciamo del 5%.

Proposte ridicole, assurde o impraticabili? Può darsi, ma proposte in sintonia con la situazione attuale. Intanto, per cominciare, il governo dovrebbe ripristinare vecchi organismi come ad esempio il Comitato Interministeriale dei Prezzi, creato nel 1973 per combattere l’inflazione e soppresso nel 1993, ad inflazione finita. Il suo compito era quello di autorizzare l’aumento dei pezzi e ha svolto egregiamente la sua funzione dissuasiva, prima che operativa, dal momento che chi voleva aumentare i prezzi doveva dimostrarne il perché.

L’economia di guerra richiede nuovi strumenti, anzi vecchi. C’è infatti il rischio che l’inerzia del Governo, al di là delle politiche a breve termine dei bonus, inneschi dinamiche economiche e poi sociali difficilmente controllabili. Se invece dimostrerà di essere attivo, al di là poi del successo ottenuto, potrà offrire qualcosa ad un’opinione pubblica ormai stanca dell’inflazione, come anche della guerra che la sta provocando.

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