Era dato come il favorito e, a poche ore dalle dimissioni di Liz Truss, il suo ritorno dalla vacanza ai Caraibi era stato interpretato come il segno inequivocabile della sua ambizione di tornare a Downing Street, poche settimane dopo lo sfratto subito a malincuore in estate, sulla scia di scandali veri o presunti come il cosiddetto Partygate. E invece Boris Johnson, ex premier britannico, ha deciso di non ricandidarsi alla guida del partito conservatore, spianando così la strada al capo del governo di Sua Maestà di Rishi Sunak, 42 anni, rampante ex cancelliere dello Scacchiere ben visto dai mercati.

Johnson ha rivendicato d’aver raccolto più dei 100 endorsement da parte di colleghi deputati conservatori richiesti questa volta dagli organismi del partito per essere ammessi alla gara alla scadenza fissata per lunedì alle 14 locali (“102”, ha detto); anche se la Bbc ne aveva contati finora 57 in forma pubblica. In ogni modo ha ammesso di non potere tornare a guidare “efficacemente” l’esecutivo senza un sostegno più vasto e unitario del gruppo parlamentare di maggioranza. Il quorum di 100 manifestazioni di sostegno – se reali – gli avrebbero in effetti consentito di puntare al ballottaggio con Sunak di fronte alla base militante – nei pronostici a lui favorevole – degli iscritti. “Ma purtroppo in questi giorni sono giunto alla conclusione che non sarebbe stata la cosa giusta da fare”, ha proseguito nel messaggio di rinuncia, evocando l’ostacolo delle divisioni interne.

“Sarei stato ben piazzato”, ha sentenziato BoJo, per guidare il partito a una nuova vittoriale elettorale alle prossime politiche – previste a fine 2024, salvo ipotesi di voto anticipato – malgrado i sondaggi attuali disastrosi per i Tories e il distacco quantificato al momento in oltre 30 punti rispetto all’opposizione laburista di Keir Starmer. Ma questo non è stato reso possibile da Sunak e dalla ministra Penny Mordaunt – i due pretendenti al dopo Truss entrati formalmente in lizza nel weekend – ai quali ha in qualche modo rinfacciato di essersi rifiutati di far fronte comune nei colloqui a tu per tu delle ultime ore.

Sia come sia, a questo punto la partita appare decisa in favore del giovane ex cancelliere, marito facoltoso della miliardaria ereditiera indiana Akshata Murty, che in partenza può contare sull’endorsement di non meno di 150 deputati (sui 357 del gruppo Tory) pescati trasversalmente dall’ultradestra pro Brexit alle correnti più moderate. Mentre Mordaunt, prima dell’uscita di scena di Johnson, non ne disponeva che di una trentina, ben lontano da quota 100.

Sunak, brexiteer pragmatico con esperienze nel mondo della finanza alla City e negli Usa, appare dunque destinato – a meno di sorprese clamorose – a diventare il primo capo di governo della storia plurisecolare d’oltre Manica le cui radici familiari affondano in India, un tempo gioiello della corona di quello che fu l’Impero Britannico. Epilogo che potrebbe scattare domani sotto forma di acclamazione diretta da parte del gruppo parlamentare Tory, se Mordaunt non tirerà fuori dal cilindro all’ultimo momento il quorum per portarlo al ballottaggio. I suoi messaggi da primo ministro sono del resto già pronti, sintetizzati nell’annuncio ufficiale odierno della sua seconda candidatura al vertice dopo il tentativo andato a vuoto a inizio settembre nel testa a testa finale con Truss: da un lato “attuare il manifesto elettorale Tory del 2019″ targato BoJo; dall’altro rimettere “in sesto l’economia” del Regno, “un grande Paese in crisi profonda” sullo sfondo delle gravi turbolenze globali recenti, all’insegna “della competenza, dell’integrità e della responsabilità”. Come a dire, non senza elementi di chiara discontinuità – caratteriale e non solo – rispetto sia a Johnson sia a Liz Truss.

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