Sull’incendio divampato la sera del 15 ottobre nella famigerata prigione di Evin sono circolate diverse ricostruzioni. Le autorità iraniane hanno attribuito, cambiando più volte versione, la responsabilità ai detenuti, definiti dal capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei “agenti del nemico… che hanno facilitato il lavoro dei centri e degli uffici sionisti, americani e britannici coinvolti nell’alimentare la guerra e generare disordini”.

Secondo Amnesty International, che ha raccolto testimonianze da prigionieri, parenti delle vittime, giornalisti e difensori dei diritti umani con contatti all’interno della prigione, le cose sono andate diversamente. Soprattutto, l’incendio è scoppiato un’ora e mezzo dopo una violenta repressione, che dunque non è stata – come invece sostenuto dalle fonti ufficiali – necessaria per riportare la calma e impedire la fuga dei prigionieri.

I prigionieri detenuti nell’edificio n. 8 della prigione di Evin hanno riferito di aver udito, a partire dalle 20 del 15 ottobre, spari e urla provenienti dall’adiacente edificio n. 7. L’edificio n. 8 ospita per lo più difensori dei diritti umani e dissidenti ingiustamente imprigionati, mentre l’edificio n. 7 è utilizzato prevalentemente per coloro che sono stati condannati per furto e reati finanziari. I prigionieri nell’edificio n. 8, preoccupati per quanto stava accadendo in quello accanto, hanno tentato di sfondare l’ingresso principale dell’edificio n. 7. In risposta, le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e pallini di metallo. Secondo un testimone oculare, le forze di sicurezza armate situate all’esterno dell’edificio n. 8 hanno sparato munizioni vere, attraverso le finestre, contro i prigionieri che si trovavano all’interno.

Le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno successivamente ammanettato numerosi prigionieri dell’edificio n. 8 e li hanno ripetutamente picchiati alla testa e al volto con i manganelli. Le forze di sicurezza hanno anche picchiato i prigionieri sulle ferite provocate dai pallini di metallo. Un prigioniero ha riportato per iscritto il racconto di un testimone oculare, ottenuto da una fonte giudicata affidabile da Amnesty International, secondo il quale gli attacchi sono stati guidati da un funzionario identificato come un colonnello, che ha partecipato ai pestaggi minacciando di morte ai prigionieri urlando: “Farò piangere le vostre madri per la vostra morte. Il giorno della vostra morte è arrivato”. Secondo il racconto del prigioniero, le forze di sicurezza hanno successivamente trasferito centinaia di prigionieri nella “palestra” della prigione, che è una grande sala, e lì hanno inflitto loro ulteriori brutali pestaggi.

Anche dall’edificio n. 5, ossia il reparto femminile, e dall’edificio n. 4, che ospita, tra gli altri, uomini con doppia cittadinanza e dissidenti politici detenuti arbitrariamente, hanno tentato di uscire dai loro edifici quando i rumori degli spari si sono fatti più insistenti. Le testimonianze oculari dei prigionieri in questi edifici parlano di forze di sicurezza che hanno di nuovo sparato illegalmente gas lacrimogeni. Secondo i racconti dei prigionieri, le forze di sicurezza sono entrate anche nel reparto femminile e hanno puntato le pistole alla testa di diverse prigioniere fra minacce e insulti.

Secondo le informazioni ottenute da Amnesty International, più di una decina di prigionieri dell’edificio n. 8 ha subito dolorose ferite da pallini metallici, che non sono state curate o lo sono state in modo inadeguato. Diversi prigionieri e prigioniere fra il reparto femminile e l’edificio n. 4 hanno subito danni fisici a causa dell’esposizione ai gas lacrimogeni. Fonti intervistate dall’organizzazione hanno anche sollevato timori che le forze di sicurezza possano aver sparato munizioni vere, data la gravità delle ferite riportate da diversi prigionieri.

L’incendio è stato successivo all’uso illegale della forza contro i prigionieri. Diversi resoconti di prigionieri e dei loro parenti indicano che le sparatorie sono iniziate intorno alle 20, un’ora e mezza prima delle 21.29, orario in cui – secondo i portavoce dei Vigili del fuoco di Teheran – era stato segnalato l’incendio. Secondo un giornalista ed ex prigioniero di coscienza con una conoscenza dettagliata di quel carcere, l’incendio si è esteso a una struttura a più piani che contiene un laboratorio di cucito e un auditorium (di seguito edificio del laboratorio), che si trova in un’area della prigione circondata da alte mura e comprende anche gli edifici n. 7 e n. 8.

Riprese video ritraggono diverse persone in borghese sul tetto dell’edificio del laboratorio, che alimentano l’incendio gettando sulle fiamme quella che sembra essere una sostanza infiammabile. Ex prigionieri con conoscenza diretta della prigione di Evin hanno confermato che si trattava del tetto. Hanno inoltre riferito ad Amnesty International che le porte principali degli edifici che ospitano i prigionieri sono chiuse dalle 17 alle 9 del mattino successivo e sarebbe impossibile per i prigionieri raggiungere la posizione sul tetto vista nel video. Le autorità iraniane hanno una lunga esperienza nell’utilizzo di persone in borghese nelle loro operazioni di sicurezza.

Secondo le immagini aeree e le riprese video dell’area interessata dall’incendio, questo sembra essere stato limitato all’edificio del laboratorio. Le informazioni ottenute da Amnesty International indicano che questo edificio non è generalmente utilizzato per ospitare i prigionieri ma in passato, durante periodi di arresti di massa a seguito di proteste come quelle che nel novembre 2019 interessarono tutto il paese, è stato temporaneamente adibito a centro di detenzione informale per centinaia di detenuti.

Ma c’è di più. In un servizio scioccante del 16 ottobre, l’organo d’informazione statale Fars News ha riferito che i boati che si odono in alcuni video erano prodotti da mine terrestri la cui esplosione era stata provocata da prigionieri in fuga. Le notizie secondo le quali i prigionieri avevano calpestato le mine sono state successivamente smentite, ma le autorità non hanno negato l’uso di mine terrestri all’interno della prigione di Evin.

Un giornalista ed ex prigioniero di coscienza ha detto ad Amnesty International di aver assistito a un’esplosione, nel gennaio 2020, mentre era detenuto nell’edificio n. 8: le guardie carcerarie dissero che un gatto aveva calpestato delle mine terrestri. Ha aggiunto che le mine sono collocate sulle colline che si trovano all’interno dell’area settentrionale del complesso penitenziario e che sono visibili da alcuni ambienti dell’edificio n. 8. Amnesty International è a conoscenza di almeno altri due ex prigionieri che hanno dichiarato sui social media che è risaputo tra i prigionieri che le mine sono collocate sulle colline situate nella parte settentrionale della prigione di Evin e che loro stessi hanno sentito e/o visto esplodere mine durante la loro detenzione.

L’ammissione da parte di organi d’informazione affiliati allo stato che le mine terrestri sono collocate in prossimità dei reparti carcerari rivela il totale disprezzo delle autorità iraniane per la vita umana e il diritto internazionale.

Dopo le violenze mortali del 15 ottobre, le autorità hanno sospeso tutte le visite al carcere di Evin, il che espone i prigionieri a ulteriori rischi di tortura e altri maltrattamenti, fra cui la negazione delle cure mediche.

Dopo l’attacco, le autorità hanno trasferito decine di prigionieri dall’edificio n. 8, comprese le persone ferite, in un luogo inizialmente sconosciuto e si sono rifiutate di informare le famiglie su cosa fosse capitato loro e su dove si trovassero.

È emerso circa un giorno dopo, quando ad alcuni prigionieri è stato permesso di fare brevi telefonate, che erano stati trasferiti nel carcere di Raja’i Shahr, a Karaj, nella provincia di Alborz. Il destino e le condizioni di molti altri prigionieri e detenuti, compresi quelli detenuti nell’edificio n. 7, rimangono poco chiari e suscitano serie preoccupazioni per la loro sicurezza.

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