Violenze, torture, soprusi, stupri ed esecuzioni. Il carcere di Evin, a Teheran, è stato costruito esattamente 50 anni fa e in tutto questo tempo è riuscito a guadagnarsi la fama di buco nero della rivoluzione. Il luogo dove oppositori e critici del regime degli ayatollah, ma anche giornalisti, scrittori, attivisti, politici e scienziati sono stati rinchiusi e dal quale alcuni di loro non hanno mai fatto ritorno. È lì che oggi, secondo quanto si apprende, è imprigionata la travel blogger italiana Alessia Piperno, arrestata insieme ad altri stranieri nei giorni caldi delle proteste di piazza per la morte di Mahsa Amini, la 22enne deceduta in custodia della polizia religiosa che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente il velo. Ed è sempre a Evin, prigione che prende il nome dall’omonimo quartiere della capitale iraniana nel quale sorge, che sabato notte sono scoppiate dure rivolte e un incendio che ha provocato la morte, nel momento in cui si scrive, di almeno 4 persone, oltre a 61 feriti.

Per le centinaia di casi di violazioni dei diritti umani emersi in questi anni, oggetto di numerose campagne di pressione da parte di ong come Amnesty International, Evin è diventato un po’ il simbolo della repressione nella Repubblica Islamica. Anche se, in realtà, la sua costruzione è stata voluta dallo scià Mohammad Reza Pahlavi nel 1972, ben sette anni prima che la rivoluzione khomeinista costringesse alla fuga la monarchia. Ma è soprattutto sotto il regime degli ayatollah che la prigione è cresciuta fino a poter ospitare 15mila detenuti e si è fatta conoscere come il luogo dove viene rinchiuso il dissenso. Tanto che ha preso il soprannome di Università di Evin per il gran numero di intellettuali e studenti che vi sono stati incarcerati in tutti questi anni.

Tra i prigionieri più illustri si ricorda, nel 1982, la famosa scrittrice Marina Nemat, poi rifugiatasi in Canada, che sull’esperienza dell’arresto ha scritto un libro, Prigioniera di Teheran, dal quale emergono la paura e le sofferenze di chi ha vissuto l’esperienza della prigionia nel carcere della capitale. In tutti questi anni, inoltre, Evin si è resa famosa anche come un luogo di stupri sistematici nei confronti delle detenute, una piaga arrivata fin sulla scrivania dell’allora Guida Suprema, l’ayatollah Khomeini.

Poi ci sono state le proteste, più recenti, dopo la rielezione dell’ex presidente Mahmud Ahmadinejad che provocò rivolte di piazza alle quali parteciparono decine di migliaia di persone, tra cui molti studenti, che diedero vita a quello che venne ribattezzato Movimento Verde. Le proteste, durate mesi, vennero sedate nel sangue, con le organizzazioni internazionali che contarono circa 80 morti e oltre 5mila arrestati, molti dei quali sono poi finiti dietro le sbarre di Evin puniti anche con condanne a morte.

Più recentemente, la prigione ha ospitato anche Ahmadreza Djalali, medico e docente iraniano naturalizzato svedese accusato di spionaggio in favore di Israele e per questo condannato a morte senza più possibilità di appello dallo scorso maggio. La sua storia è oggetto di un’importante campagna di pressione lanciata da Amnesty International, che ne chiede la liberazione, e che ha coinvolto anche le Nazioni Unite e alcuni premi Nobel. E c’è poi Nasrin Sotoudeh, avvocata e attivista per i diritti umani più volte arrestata dal regime e che nel 2018 è stata nuovamente condotta in carcere e successivamente condannata per “reati di sicurezza nazionale” a 33 anni di reclusione e 148 frustate. Oggi, Evin torna sui giornali per le rivolte interne seguite a quelle di piazza dopo la morte di Mahsa Amini. E anche in questo caso, la repressione dietro ai cancelli della prigione più famosa del Paese si sta risolvendo nel sangue.

Twitter: @GianniRosini

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