Gregory Crewdson, star americana della fotografia contemporanea, ha personalmente inaugurato a Torino, nei giorni scorsi, la sua grande mostra Eveningside, visitabile fino al 22 gennaio alle Gallerie d’Italia.

Sono esposte alcune serie molto note (come Cathedral of the Pines e An Eclipse of Moths), ma c’è anche un’anteprima mondiale, la serie che dà il titolo all’intera mostra, realizzata nel 2021 e 22: in un sommesso, spesso serale o notturno bianconero, questo nuovo lavoro è nato su commissione da parte della stessa Banca Intesa Sanpaolo che ha dato vita alle Gallerie d’Italia. Una forma di mecenatismo consueto in altri paesi ma piuttosto raro da noi, dove in troppi ritengono che “con la cultura non si mangia”, per citare le parole di un italico ex ministro.

Le fotografie di Crewdson, o meglio tutta la sua ricerca e tutto il suo percorso, sono un viaggio immaginifico in un “dentro che diventa fuori”. Quello che ci è dato vedere ci destabilizza: scene dove regna un tempo sospeso, senza un prima e senza un dopo, con personaggi pietrificati, isolati, lontani, persi e incantati – forse inebetiti – alla ricerca, si direbbe, di una ragione per vivere. Mondi a volte urbani, altre naturali, ma sempre mondi anonimi in disfacimento.

Questi tableau vivant della nostra umana alienazione, questi “fermo fotogramma” di vite ai margini, in luoghi desolati e desolanti della più periferica e profonda America (altro che sogno americano!), sono in realtà frutto di set complessi, lenti e costosi. L’autore, come un regista, si muove con una troupe quasi “hollywoodiana” composta da decine tra assistenti, tecnici, figuranti, autisti, trovarobe, costumisti, eccetera.

Per un autore così influente, intenso e celebrato, scatta, al solito, la ricerca di definizioni. Si dice, ed è incontestabile, che la sua visione ha un taglio cinematografico, con riferimenti per esempio a David Lynch. Ma quando, immancabilmente, si fa riferimento alla pittura di Edward Hopper, a me parte un cortocircuito e mi chiedo: “In che senso?”. E’ vero, visivamente troviamo delle assonanze evidenti tra quelle atmosfere oniriche, tra quelle figure umane immobili a contemplare non si sa che, e poi finestre, vetrine, specchi, solitudine, silenzio: insomma, molti ingredienti visivi e simbolici effettivamente li ritroviamo, e d’altra parte è Crewdson stesso a riconoscere l’influenza di Hopper. Ma c’è un ma: l’abisso siderale di percezione, della nostra percezione, tra un dipinto e una fotografia. Questo cambia radicalmente le carte in tavola e le “regole del gioco”.

Il punto è, ancora e sempre, che davanti a una fotografia la nostra reazione automatica, atavica e inamovibile, è quella di credervi come specchio della realtà: “non è vero ma ci credo”, potremmo sintetizzare, e il paragone con la superstizione, forse, non è del tutto improprio.

Dunque, al di là dell’immagine nel suo contenuto e nella sua composizione, percepiamo il quadro di Hopper come esclusivo parto della sua fantasia, del suo immaginario e della sua creatività. La stessa identica scena, vista in fotografia, viene immediatamente spostata nella realtà anche se frutto di artificio. Sicché, piuttosto che sognare come avviene col pittore, iniziamo a domandarci “chi è quella donna lì, con quel viso così pallido ed emaciato? Chi aspetta, immobile a bordo strada, con quella valigia?”. Ma ce lo chiediamo come se quella donna avesse una carta d’identità in tasca, un indirizzo a cui bussare, un vissuto che non conosciamo ma potremmo conoscere.

Queste domande, davanti al quadro di Hopper, non ce le facciamo. L’ansia rarefatta e pesante al contempo che ci trasmette Hopper è quasi metafisica, quella che c’investe immergendoci nelle fotografie di Crewdson (tutte presentate in formati enormi) è molto più drammaticamente presente e contagiosa, ci devasta la loro inspiegabilità. Ed è, guarda caso, la condizione esistenziale che questo autore ammette di provare. Anche se la sua fotografia è staged, totalmente inventata e costruita, ci risulta credibile proprio in quanto fotografia: questo meccanismo mentale è una grande opportunità creativa (vedi Crewdson, che non vuole ingannarci) e una pericolosa arma in mano a chi la sfrutta in malafede.

L’atto fotografico è intrinsecamente un delirio di onnipotenza, nel momento in cui “immortala” illudendosi di fermare il tempo. E qui un paradosso: queste fotografie sospese in un mistero sembrano perseguire l’opposto di quel “momento decisivo” teorizzato da Cartier-Bresson; ma è proprio quest’ultimo a scrivere: “A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza, ed il cui contenuto irradia a tal punto al di fuori di essa, che questa singola immagine è in sé un’intera narrazione”.
Gregory Crewdson fa proprio questo, sospende il tempo, lo cristallizza in un momento, in un mistero, e ci chiama a essere co-autori delle sue storie con la nostra immaginazione e con un brivido.

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