Ancora lui, ancora Henri Cartier-Bresson, ancora la sua ennesima mostra, sempre i consueti “divi” della fotografia! Facile immaginare le obiezioni – non del tutto immotivate – che molti sollevano quando viene annunciato un evento che riguarda i soliti noti, forse alla ricerca di un risultato certo come riscontro di pubblico e di media. È da considerarsi un’eccezione, però, la mostra in corso al MUDEC di Milano, fino al 3 luglio prossimo, intitolata Cina 1948-49/1958, del fotografo che venne definito “l’occhio del secolo”. Questa esposizione, infatti, offre una possibilità fondamentale: capire la vera natura di questo grande maestro. Il quale – va detto – ci ha messo lo zampino per essere visto da molti essenzialmente come un formidabile catturatore di singoli scatti, di momenti decisivi in ordine sparso, di sorprendenti “images à la sauvette” prese qua e là per il mondo, un mondo dunque composto da frammenti regalati dal caso.

Fu in effetti Cartier-Bresson stesso a selezionare, all’inizio degli anni ‘70, tra tutta la sua immensa produzione, 385 fotografie che costituiscono la Master collection, e che vengono continuamente riproposte nelle innumerevoli mostre e pubblicazioni antologiche tendenti a storicizzare l’autore. Niente di più fuorviante rispetto a quelli che erano, però, i suoi veri intenti: non tanto il fare esclusivamente una sorta di street photography nel teatro del mondo, ma raccontare approfonditamente luoghi, culture, popoli ed eventi. La sua natura era quella del reportage, andando anche più volte e per periodi lunghi negli stessi luoghi fino a comprenderne e mostrarne l’essenza del viverci. Stiamo parlando del fondatore di Magnum, la leggendaria agenzia/cooperativa di fotografia che questa modalità si era data come finalità del suo operare.

Ecco allora: non più l’ennesima mostra celebrativa e antologica, ma una mirata, come questa, su un singolo tema (la Cina, nella fattispecie) che ci restituisce finalmente l’intento dell’autore e il suo modo di procedere per raggiungerlo. In Cina Cartier-Bresson si è recato la prima volta nel 1948, e poi a distanza di dieci anni esatti per verificare e documentare i grandi cambiamenti avvenuti in quel decennio. La curiosità per quel pianeta sconosciuto e lontano chiamato Cina è intramontabile, e se muoveva i passi di Cartier-Bresson allora, ha continuato a muovere quelli di molti fotografi fino a oggi, giorni in cui ancora ci interroghiamo sul ruolo della Cina negli equilibri del mondo, mentre ne studiamo le strategie in merito alle sue posizioni circa il conflitto in atto tra Russia e Ucraina. Nel 1948 (la Magnum era stata fondata appena l’anno precedente) Cartier-Bresson si reca in Cina e vi resta per ben dieci mesi, vivendo in presa diretta l’arrivo delle truppe di Mao e la caduta del Kuomintang. Osserva una Cina legata alla tradizione, arretrata e lenta ma umanamente poetica, mentre alle porte si profila un’epocale trasformazione: quel “grande balzo in avanti” che andrà a indagare esattamente dieci anni dopo restando altri quattro mesi. Troverà questa volta una Cina radicalmente segnata dalle logiche di una nuova economia, che si porta dietro lo sfilacciamento del tessuto sociale.

Tra questi due reportage, nel 1954, l’editore Delpire pubblica il libro D’une Chine à l’autre, con quella prefazione di Jean-Paul Sartre dall’indimenticabile e oscuro attacco: “All’origine del pittoresco c’è la guerra”. Un’altra sorpresa che attende il visitatore è imbattersi nelle foto a colori di Cartier-Bresson: tra i molti materiali collaterali esposti (libri, riviste, documenti) vi sono le pagine di fotografie a colori scattate dal fotografo che sempre il colore rinnegò; in effetti poi lo abbandonò definitivamente, e anche questa eccezione (determinata da richieste editoriali) è una delle rivelazioni offerte da questa mostra. Esiste dunque per Cartier-Bresson il mitico “momento decisivo”, ma è tale anche quando dura mesi o anni e decisivo lo è per la storia.

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