È il pomeriggio del 16 agosto 1977 quando in seguito all’annuncio “Elvis left the building” il mondo apprende della morte del Re del Rock, sua maestà Elvis Aaron Presley. Poco dopo essere stato ricoverato d’urgenza presso il Baptist Memorial Hospital, i medici lo dichiarano ufficialmente deceduto per aritmia cardiaca.

Alla notizia, l’America va immediatamente in subbuglio, a Memphis oltre centomila persone si riversano a Graceland, sua ultima dimora, e nel marasma della folla, due donne perdono la vita, investite da un ubriaco alla guida di un’auto. In occasione dell’evento funebre, Indro Montanelli commentò sarcastico: “Il sindaco ha fatto abbrunare le bandiere in tutta la città, il presidente Carter è stato flagellato di proteste perché non aveva proclamato il lutto nazionale e uno gli ha gridato al microfono: ‘Noi americani dobbiamo più a Presley che a Washington e a Lincoln sommati insieme’. Anche noi italiani dobbiamo qualcosa a Presley: una delle rare occasioni in cui preferiamo essere italiani piuttosto che americani”.

Quel giorno sono centinaia i giornalisti provenienti da tutto il mondo, inviati per coprire la morte del Re del Rock. Tra di loro alcuni sono dei veri e propri veterani, avendo seguito da vicino colpi di Stato, funerali di re e dittatori, la guerra del Vietnam: stando ai loro racconti, i giorni della morte di Elvis e quelli che ne seguirono al funerale – “il più grandioso mai avuto da un privato cittadino negli Stati Uniti” – furono peggio che affrontare una guerra. Tra dispetti e una concorrenza spietata, a fare il sensazionale colpo è il National Enquirer, che punta tutto sin dall’inizio, nonostante il divieto del clan Presley, sulla foto del cantante, trasfigurato dall’alcool e dalle pasticche, sfatto dall’obesità e dalla noia esistenziale, in un completo beige, con camicia azzurra e cravatta a strisce, nella bara. Uno scatto che frutta 75mila dollari all’autore, ancora oggi ignoto (si racconta che sia stato un cugino di Elvis a farla), grazie al quale l’Enquirer stabilisce il suo record assoluto di vendite, sei milioni di copie, ma che a distanza di 45 anni non dà la certezza assoluta che quello immortalato nella foto dentro la bara sia il vero Elvis.

Sin dalla scomparsa, infatti, l’apporto di articoli secondo i quali Elvis sarebbe ancora vivo e vegeto è stato costante. Così come i libri pubblicati per celebrarne le gesta – uno degli ultimi è Elvis e il Colonnello di James L. Dickerson uscito per i tipi della Rizzoli – e i film per farlo rivivere, come Elvis di Baz Luhrmann, che al libro di Dickerson s’è ispirato, uscito da pochi mesi nelle sale cinematografiche, in cui l’ottimo Austin Butler (in curriculum The dead don’t die di Jim Jarmusch e C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino) incarna alla perfezione Elvis, mentre l’antagonista manager con la dipendenza dal gioco d’azzardo, il colonnello Tom Parker, è interpretato dal grande Tom Hanks.

Già, il colonnello Tom Parker. Dopo che per decenni si è scandagliato a fondo nella vita di Elvis Aaron Presley, raccontato il raccontabile e teorizzato di tutto sulla sua (presunta?) morte, a 45 anni dalla scomparsa del Re del Rock, sembrerebbe giunto il momento che a finire sotto la luce dei riflettori sia proprio l’ambiguo impresario Parker, sul quale già in vita erano fiorite mille leggende. Vecchia volpe dello showbiz, nel libro, Dickerson racconta che “una volta negoziò un contratto cinematografico multimilionario per Elvis, ma non accettò la vantaggiosa offerta fin quando l’interlocutore non aggiunse il posacenere nel quale il colonnello stava ciccando il sigaro, come incentivo ulteriore”.

Leggende alimentate dal fatto che fosse arrivato clandestinamente negli Stati Uniti all’età di vent’anni dai Paesi Bassi, dopo aver abbandonato l’attività di imbonitore in spettacoli circensi, e mutato il suo vero nome – Andreas van Kuijk – in Tom Parker, fatto che mantenne segreto per tutta la vita, così come le sue origini olandesi. E che non fosse un vero colonnello dell’esercito: nei primi decenni del Novecento, infatti, in alcuni Stati del Sud il governatore assegnava il titolo di colonnello ai suoi maggiori sostenitori. Era un titolo onorario, ma che apriva le porte a chi lo deteneva, e Parker lo ottenne grazie a uomini della malavita con cui entrò in contatto per affari.

Sostiene il chitarrista dei Rolling Stones, Keith Richards, che è “davvero scandaloso ciò che Parker fece a Elvis. Si faceva pagare cifre astronomiche per occuparsi di Elvis, molto più di quanto sia la norma nel management”, e che inoltre “Parker avrebbe potuto occuparsi meglio del problema di Elvis con la droga, invece mantenne una politica di non intervento”. Secondo altri, invece, come il bassista Marshall Grant, “il management di Elvis Presley è stata la maggiore tragedia della musica americana”. Tra i tanti dubbi e i milioni di sospetti che avvolgono la vita del Re del Rock, a distanza di 45 anni l’unica certezza è che se Elvis è riuscito a diventare un mito e il rock and roll tutt’oggi si identifica con lui è anche grazie all’abilità e alla spregiudicatezza di quella vecchia volpe del colonnello Tom Parker, burattinaio (di Elvis) ed ex giostraio, capace di stravolgere completamente e per sempre le regole mondiali del business dell’entertainment.

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