Il governo Draghi non c’è più ma le emergenze, di cui quello che era stato definito e celebrato come “il governo dei Migliori” si stava comunque facendo carico, ci sono tutte e sono se possibile anche più opprimenti e minacciose: dalla guerra di Putin contro il popolo ucraino, mirata in concomitanza “all’accordo sul grano” su Odessa, al caldo e alla siccità estremi che devastano il paese, fino ai dati in risalita di contagi e decessi per Covid, oltre all’inflazione per i rincari energetici. Il governo che verrà dovrà affrontare uno scenario complessivo interno e internazionale alquanto critico, che dal 24 febbraio scorso, indipendentemente dal rilievo che gli viene attribuito sulle testate e nei tg nazionali, è diventato centrale e ineludibile. E che impone una chiarezza assoluta di comportamenti e una coerente assunzione di responsabilità in politica estera dell’Italia rispetto all’Europa, all’alleanza Atlantica e al perdurare della guerra di Putin, che sarebbe appropriato continuare a definire così, per quello che è.

Anche l’agognato sbocco dei porti ucraini, siglato a Istanbul sotto l’astuta mediazione di Erdogan, dopo che Mosca ha usato per mesi il grano come una formidabile arma politica impedendo le esportazioni di cereali via mare, è in stallo da giorni per la pretesa russa della rimozione delle sanzioni, che notoriamente non hanno mai riguardato il cibo. Intanto rimane il fondato sospetto di trafugamento e vendita di cereali ucraini rubati da parte dei russi e si è assistito all’ennesimo bombardamento di un quartiere residenziale a Mykolaiv sul fronte sud dopo un ulteriore attacco a nord di Kiev partito da avamposti bielorussi.

Ma nella progressione dei crimini di guerra, che non conosce pause estive ed è mediaticamente favorita dal disinteresse vacanziero, è stato colpito con millimetrica precisione anche il centro detentivo di Olenivka, dove sarebbero stati trasferiti solo pochi giorni prima dell’attacco i soldati del battaglione Azov, i resistenti di Mariupol arresi ed evacuati dai russi dopo le umilianti ricognizioni dei famigerati tatuaggi e già oggetto di atroci sevizie e mutilazioni, come denunciato anche dall’alto rappresentante per la politica estera dell’Eu Borrell. Naturalmente, come da copione e come accaduto anche per i missili su Odessa qualche giorno fa, secondo i russi si tratta di un massacro premeditato da Kiev, con un bilancio provvisorio agghiacciante di 53 prigionieri di guerra uccisi e 75 feriti, che voleva sbarazzarsi di scomodi testimoni “dei crimini di guerra ucraini nel Donbass”. I dettagli dell’operazione che ha colpito solo i prigionieri, senza coinvolgere nemmeno un carceriere, il duplice movente di nascondere le tracce di torture ed esecuzioni già avvenute prevenendo anche le ricadute di annunciate esecuzioni capitali o di una “Norimberga putiniana”, l’efferatezza e il cinismo della pianificazione combacerebbero con il modus operandi dei mercenari della Wagner.

Secondo i servizi di sicurezza ucraini l’operazione sarebbe stata organizzata su ordine dello stesso oligarca, con rispettabile curriculum criminale Yevgeny Prigozhin, “il cuoco di Putin” cervello operativo dello squadrone “fantasma”, che avrebbe dovuto tra l’altro eliminare Zelensky e che in Siria e nella Repubblica Centrafricana è stato l’artefice di traffici lucrosi quanto di crimini feroci documentati anche nei confronti di civili. L’ulteriore successiva circostanza del diniego opposto dalla Russia al Comitato Internazionale della Croce Rossa dell’accesso alla prigione per poter incontrare i prigionieri di guerra superstiti, “un obbligo previsto dalla Convenzione di Ginevra”, conferma quanto meno l’opacità e la pretesa di sottrarsi ancora una volta alle più elementari regole alla base del diritto internazionale.

E’ questo il contesto internazionale, di cui la guerra in Europa costituisce lo snodo ineludibile, nel quale tra meno di due mesi siamo chiamati al voto, in tempi che opportunamente Mattarella ha voluto contingentare per approdare il prima possibile a un nuovo governo espressione della volontà popolare: come ha precisato, “il momento di emergenze non consente pause”, e augurandosi “nell’interesse superiore dell’Italia un contributo costruttivo” nonostante la campagna elettorale.

La domanda dirimente che Lucia Annunziata a Mezz’ora in più ha posto ad Antonio Tajani – che, nonostante Berlusconi, si accredita come garante dell’assoluta continuità con la linea intransigente di Draghi riguardo l’aggressione all’Ucraina, ovvero se c’è un fronte unito europeista e atlantista di contrasto a Putin “senza se e senza ma” – interpella in primo luogo Matteo Salvini, ma non solo, che sulle cosiddette “ombre russe” continua a tacere, divagare, buttare la palla in tribuna. In estrema sintesi la posta in gioco, come ha prospettato la stessa Annunziata dalle pagine della Stampa qualche giorno fa, è “la difesa dell’equilibrio europeo da un fronte antieuropeo che Putin ispira, sostenendolo apertamente con finanziamenti- come quelli ammessi da Marine LePen (5 milioni di euro) e Orban”.

E, come ha chiaramente puntualizzato Peter Gomez a In onda (La 7) in merito ai legami tra Russia e Lega, riemerse a seguito delle rivelazioni de La Stampa sui contatti tra il consigliere per i rapporti internazionali di Salvini, Antonio Capuano, e Oleg Kostyukov “importante funzionario dell’ambasciata russa” in Italia, la questione di fondo rimane quella dei presunti fondi russi alla Lega. Il caso come noto è emerso a seguito dell’inchiesta della procura di Milano su Gianluca Savoini, uomo di Salvini, a seguito della serie di incontri con emissari di Putin all’hotel Metropole a Mosca. L’affare oggetto degli incontri: una compravendita di idrocarburi che avrebbe dovuto finanziare la Lega con 65 milioni di dollari, che non si concretizza perché esce sui giornali. In Parlamento Salvini non ha mai chiarito. E non ha mai mollato Savoini.

Analogamente non sono mai arrivati chiarimenti su rapporti, o meglio traffici economici, intercorsi tra Berlusconi e Putin, né sul perché tanti collaboratori di B. si occupassero di importazioni di gas. Non si può che concordare con Peter Gomez che “il punto della ricattabilità fa la differenza su tutto“, e ribadire all’infinito che la trasparenza per chi fa politica ed è un rappresentante delle istituzioni ai massimi livelli deve essere una precondizione di credibilità di cui gli elettori dovrebbero tener conto nell’urna, tanto più nella situazione odierna.

Essere esente da qualsiasi sospetto di opacità e ricattabilità nei rapporti con Putin però non basta, secondo i miei parametri, per ottenere la mia fiducia di elettrice. Salvini e Berlusconi hanno cavalcato la crisi che oggettivamente il M5s di Conte ha favorito per motivazioni squisitamente politiche (nonché elettorali, contando su un periodo di proficua opposizione) che non ho condiviso, dal muro sul ddl Aiuti allo stillicidio contro le armi all’Ucraina già deliberato e di impatto sostanzialmente simbolico.

Così come al tempo del governo giallo-verde ho ritenuto del tutto inopportuna l’apertura di Conte a favore del ritiro delle sanzioni a Putin in nome del “dialogo”, e di recente, in occasione dell’endorsement entusiastico di Razov – una manifesta e preoccupante intrusione nelle decisioni di uno stato sovrano che lo ospita in qualità di ambasciatore, per la risoluzione contro il sostegno militare a un paese resistente concordato con l’Europa – ho condiviso l’imbarazzo e la vergogna espressi dal senatore Primo De Nicola.

D’altronde in precedenza avevo già assistito con amarezza se non con disgusto in occasione del 25 aprile alla “resistenZa putiniana” del presidente della commissione Esteri del Senato Petrocelli, dopo la diserzione di troppi pentastellati insieme a lui alla seduta in Parlamento con Zelensky. Episodi non secondari cui vanno aggiunte le uscite agghiaccianti di parlamentari, fino ad allora ignoti alle cronache, che saranno ricordati per aver negato la strage di civili nel teatro di Mariupol domandandosi “cosa ci facessero a teatro sotto le bombe” o per aver additato al pubblico ludibrio la partoriente ferita deportata dai russi come una figurante al soldo della propaganda ucraina.

Posso solo confidare nel non aver contribuito a eleggere direttamente simili personaggi e comunque so con certezza che nel prossimo futuro, grazie al mio voto, non occuperà gli scranni del Parlamento nessuno, che in buona o mala fede, possa essere gradito a Putin.

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