di Federica Pistono*

Khaled Khalifa, uno degli scrittori siriani più conosciuti nel mondo, si è sempre distinto per il coraggio con cui si è apertamente opposto al regime di Bashar al-Asad, sfidando i rigori della censura e scuotendo in profondità le coscienze siriane. Al contrario di altri autori che, per salvaguardare la propria sicurezza, hanno utilizzato accorgimenti ed espedienti letterari ambientando le proprie storie in un altro luogo o in altro tempo, nei suoi romanzi Khalifa ha spesso rievocato i drammatici scontri che hanno lacerato il Paese, dopo la presa del potere nel 1970 da parte di Hafez al-Asad, al quale è succeduto, nel 2000, il figlio Bashar. Quella di Khalifa può definirsi una narrativa contro l’oblio, volta a indagare le spaccature e le sofferenze che la dittatura e la guerra hanno prodotto nel tessuto sociale siriano.

Nel romanzo Elogio dell’odio (Bompiani, 2011, traduzione di F. Prevedello), l’autore riporta alla memoria lo scontro sanguinoso tra il regime di Hafez al-Asad e gli estremisti sunniti guidati dai fratelli musulmani, raccontando il tentativo di insurrezione e la durissima repressione, la lotta che ha dilaniato il Paese portandolo sull’orlo della catastrofe, con le famiglie siriane strette tra il fondamentalismo e un regime poliziesco e corrotto.

L’opera, ambientata ad Aleppo, ripercorre la vicenda di un’antica e prestigiosa famiglia di rinomati mercanti di tappeti preziosi. I protagonisti assistono all’inesorabile declino della città, teatro della rivolta e della repressione, e alla lenta ma inevitabile rovina della famiglia.

I temi della disgregazione sociale, della decadenza morale, della dissoluzione dei valori e delle aspirazioni di un popolo oppresso, sono al centro del secondo romanzo di Khalifa. Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città (Bompiani, 2018, traduzione di M. Avino). Questo romanzo, finalista per il Booker arabo nel 2014 e vincitore del Premio Nagib Mahfuz dello stesso anno, conduce un’indagine approfondita sui meccanismi della paura e dello sgretolamento della convivenza civile in una società devastata da mezzo secolo di dittatura.

La vicenda, ancora ambientata ad Aleppo, offre lo spunto allo scrittore per descrivere vividamente l’esistenza di una famiglia e di un popolo in un contesto autocratico, per mostrare come la tirannia sia paragonabile a una malattia mortale che intacca la società, dissolvendone i sogni, disintegrandone il tessuto sociale, disperdendo i legami familiari, spingendo l’individuo, privato della libertà, a desiderare la morte, l’autodistruzione.

In Morire è un mestiere difficile (Bompiani, 2019, trad. M. Avino), lo scrittore sceglie di descrivere la guerra che insanguina la Siria. Un padre morente esprime il desiderio di essere sepolto nella tomba di famiglia. I figli devono trasferire la salma da Damasco, città in cui è avvenuto il decesso, in un villaggio nelle vicinanze di Aleppo, lungo un percorso di 400 chilometri, attraversando aree controllate dal regime, dall’esercito libero o dai gruppi islamisti. I tre fratelli devono così intraprendere un viaggio pericoloso, trasportando la salma del padre in un minibus, trovandosi a fronteggiare infinite difficoltà, nodi irrisolti del passato, antichi contrasti e gelosie mai sopite.

Nel romanzo, il cui tono oscilla tra l’umorismo nero e il cinismo, la morte è dappertutto, e la salma del padre non è l’unica cosa che si decompone davanti agli occhi sbigottiti dei figli, ma a sgretolarsi è un intero Paese, il cui popolo è intrappolato tra il fragore delle bombe e il lutto per i morti.

Nel suo ultimo romanzo, Nessuno ha pregato per loro (Bompiani, 2021, traduzione di E. Chiti), Khalifa sceglie di collocare la vicenda nel 1907 e racconta la storia di due amici, Hannah e Zakariya, che sopravvivono a un’alluvione che devasta il loro villaggio nei pressi di Aleppo, un evento destinato a sconvolgere e trasformare le loro vite. Attraverso i due protagonisti l’autore dipinge l’affresco di una Siria in cammino verso la modernità: le famiglie lasciano i paesini di campagna per trasferirsi nella città, in cui cristiani, musulmani ed ebrei convivono pacificamente.

Il romanzo ripercorre la storia della città nella prima metà del ventesimo secolo, attraverso le vicende degli abitanti di quel tempo, mostrando sullo sfondo le profonde trasformazioni sociali, politiche e religiose di Aleppo. Hannah, protagonista e voce narrante dell’opera, non rievoca soltanto guerre e carestie, inondazioni e terremoti, ma ricostruisce un passato intessuto non solo di catastrofi, ma anche di storie d’amore e di amicizia. Un romanzo avvincente, da uno scrittore che ha scelto di restare in Siria, testimone della sua epoca.

* Dottore di Ricerca in Letteratura araba, traduttrice, arabista, docente, si occupa di narrativa araba contemporanea e di traduzione in italiano di letteratura araba

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