Da quando il mondo è stato investito dalla pandemia dovuta al Covid siamo stati sommersi, forse per la prima volta con una così alta frequenza, dai numeri diffusi atti a descrivere il fenomeno, la crescita o decrescita della malattia con le scelte conseguenti, lockdown, colore delle regioni, ecc. Proprio a fronte di questa baraonda di numeri occorrerebbe una riflessione, prima di affrontare l’argomento del presente post, che riguarda l’opportunità che la pandemia potrebbe offrirci: la massa di dati raccolti sullo stato di salute della popolazione potrebbe essere utilizzata in modo molto proficuo da chi, nel nostro Paese, si occupa dell’organizzazione sanitaria.

La riflessione introduttiva sulla mole dei dati raccolta, divulgata ogni giorno – prima della guerra tra Ucraina e Russia, che ha assorbito quasi tutto l’interesse dei media – riguarda l’interpretazione del dato stesso e della sua elaborazione. E’ buona regola presentare i dati con chiarezza perché la quantità eccessiva può contribuire a fare confusione: bisogna scegliere, tra le tante elaborazioni, spesso ridondanti e quindi inutili, quelle che meglio descrivono e interpretano il fenomeno. Una delle regole base, quando si parla di numeri, è che i raffronti si operino tra grandezze omogenee, attenendosi a quella famosa frase che in prima elementare ci diceva la maestra: “Non si possono sommare le pere con le mele”.

Inoltre, continuare a parlare di numeri assoluti è solo un modo per confondere le idee: che importanza ha se si sono eseguiti 100mila tamponi ieri e 200mila oggi e che, rispettivamente, hanno individuato x e y positivi? L’importante è sapere se il tasso di positività sia rimasto uguale, se sia salito o sceso. L’importante sarebbe sapere chi viene colpito dalla malattia (segmentando per età e sesso i malati). Il dato di insieme è importante perché fornisce l’entità del fenomeno nel suo complesso, ma ancora più importante è sapere se il fenomeno si distribuisce equamente in tutti gli strati della popolazione o se, invece (come generalmente accade), si annida più in una fascia (per esempio i più anziani) o in un’altra: questo ci permetterà di intervenire con più efficacia ed efficienza, dirigendo i nostri sforzi in una direzione piuttosto che in un’altra.

L’analisi dei dati, soprattutto quando si dispone di tanti dati, è essenziale, non perché debba essere un mero esercizio statistico, un divertissement, ma perché ci aiuta a capire la realtà e a prendere decisioni basate sui fatti e non sulla percezione o sulle sensazioni, spesso basate solo su opinioni. I numeri sulla pandemia, aggiornati a giugno 2022, dicono che gli italiani contagiati dal Covid sono stati oltre 18 milioni, più donne (52,8%) che uomini (47,2%), con una concentrazione maggiore tra i 41enni e con i morti superiori a 168mila unità.

Ma ora veniamo al tema vero della nostra discussione: i dati raccolti in questa pandemia durante gli screening a cui siamo stati sottoposti ogni qualvolta siamo andati a farci vaccinare. Chi si è vaccinato ricorderà sicuramente di aver compilato un questionario che gli poneva delle domande riguardo la fotografia del suo stato di salute: malattie presenti e passate, allergie, medicine utilizzate, ecc. In seconda battuta, quando si è andati per le due successive vaccinazioni, il questionario raccoglieva anche dati sugli effetti del vaccino somministrato, per correlare gli effetti collaterali con il soggetto che li rimarcava (giovane, anziano, affetto da una certa malattia, donna in stato di gravidanza, ecc.).

Le informazioni contenute nel primo questionario sono una vera miniera di dati e ci domandiamo che uso il ministero della Sanità ne voglia fare. In un momento di “svolta”, di riprogrammazione del nostro obsoleto sistema di governance, di passaggio verso l’informatizzazione e la digitalizzazione, questo check up quasi completo della popolazione italiana che restituisce una mappa delle patologie, di dove sono concentrate geograficamente e anagraficamente, potrebbe essere efficacissimo per orientare le scelte sanitarie: quali sono le malattie su cui occorre fare più prevenzione? Come si distribuiscono le diverse patologie per età, genere, dislocazione territoriale? Quali sono le allergie ai medicinali più comuni? E in funzione dei risultati: quali specializzazioni mediche sono più urgenti nel nostro Paese e, quindi, occorre incentivare? Quali reparti rafforzare negli ospedali? Dove c’è maggior bisogno di presidi medici? Quale tipo di organizzazione sanitaria occorre prevedere? Quali sono i costi da affrontare?

E’ un’occasione unica. Forse il ministero della Salute già sta provvedendo. Ce lo auguriamo.

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