Dopo aver scoperto che Soldier Boy (Jensen Ackles) – il primo supereroe americano dei tempi della Seconda Guerra Mondiale – è ancora vivo e tenuto prigioniero in Russia, Billy Butcher (Karl Urban), leader autoreferenziale e spregiudicato dei The Boys, progetta di liberarlo e servirsene per eliminare la sua nemesi, il superuomo Homelander (Antony Starr). Nel frattempo i nuovi, isterici scenari socio-politici dell’America bipolarista (e, per certi versi, letteralmente bipolare) costringono i protagonisti a ridefinire le alleanze interne in base ai propri tornaconti. In particolare, Hughie (Jack Quaid) entra nello staff della controversa candidata al Congresso Victoria Neuman (Claudia Doumit) e Queen Maeve (Dominique McElligott) stringe pericolosi rapporti con lo stesso Billy Butcher.

La terza stagione di The Boys consacra la serie ideata da Eric Kripke come uno dei prodotti più interessanti degli ultimi tempi, in cui convivono intrattenimento (in questa edizione più che mai dedicato prevalentemente a un pubblico adulto e maturo) e metafore – decisamente iperboliche – della società odierna americana, dipinta come un insanguinato campo di battaglia permanente in cui le diverse anime degli interessi corporativi fanno a gara ad amplificare gli isterismi di massa dei cittadini/consumatori. La versione fittizia di questi ultimi fa da specchio distorto a quella che gli autori immaginano seduta sul divano: un popolino inquieto che si divide in cori contrapposti di vibrante protesta, scarsamente interessato alla comprensione dei fatti concreti che ne determinano le vite. Piuttosto si preferisce parteggiare per idoli privilegiati, in grado di fare da cassa di risonanza alle proprie opinioni, non importa quanto ipocrite, non importa quanto violente. Il risultato è una folla di solitudini rabbiose che si aggrediscono l’un l’altra e che vedono la morte dell’oppositore come l’unico rimedio al proprio dolore: un incubo etico al di là di ogni redenzione, in cui nessun tipo di “potere” è innocente.

Uno dei nuclei narrativi di questa stagione è proprio Soldier Boy, versione distorta e dispregiativa di Capitan America, ma soprattutto personificazione del morboso e irrisolto complesso edipico alla base della cultura militarista americana. Il mito della generazione dei padri, costantemente glorificata, da un lato crea un mal posto senso di debito e insicurezza che non fa che generare altri mostri, dall’altro nasconde nella propria ombra un passato che più che di eroismo era fatto di soprusi, crudeltà, violenza da frontiera selvaggia.

Tuttavia, in quanto apice del genere, la serie Amazon Prime non è esente dai più comuni difetti di cui si ritrova spesso schiava la serialità di successo: una narrazione fin troppo subordinata ai cliffhanger che l’hanno preceduta e a quelli che dovranno necessariamente chiuderla, in cui gli spazi di respiro più virtuosi vengono riservati allo sviluppo centrale, all’anima narrativa della stagione in sé. La sensazione è che sia difficile mantenere coerente una trama e dei personaggi che non possono permettersi finali risolutivi finché il network non deciderà di chiudere il cantiere. Tant’è che – evitando spoiler di sorta – se i primissimi episodi di questa stagione sembrano vagamente ansiosi di lasciarsi alle spalle le premesse di quella precedente, l’episodio finale appare fin troppo frettoloso di allestire il palco a quella successiva.

Appare ad esempio molto sacrificato l’interessantissimo personaggio di Black Noir, incarnazione della coscienza sporca d’America quando si tratta di colmare la distanza tra representation mediatica e diritti civili. Inoltre, ogni risoluzione offerta dallo scontro finale tra i The Boys e Homelander (di per sé molto ridimensionato rispetto alle premesse, sia in termini narrativi che formali) è apparente, perlopiù smentita dai numerosi finali concessi ai personaggi che gli sopravvivono. La conclusione di questa stagione lascia dunque allo spettatore una sensazione da spettacolare zero a zero, in cui nessuno ha voluto davvero fare gol, preferendo rimandare tutto all’incontro successivo. Peccato, ma alla prossima.

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