Sono le frasi da chica mala, non lo sai?

No, non lo so.

Mi guardano scioccati.

Chiedo lumi e loro me ne danno. Ridono, ammiccano, deridono con distacco questa moda ma capisco che ci stanno dentro fino al collo.

Mi incuriosisco, approfondisco. Dopo aver capito sintetizzo così: orrore. La scrittura non è chiamata in causa, basta un “condividi” e – secondo te – hai detto a qualcuno quel che senti dentro usando frasi fatte.

L’occhio (e l’orecchio) sui figli a volte precorre i dati, persino quelli di Save the Children per cui un ragazzo su due non comprende un testo scritto e al concorso dei magistrati nove candidati su dieci non sono passati. Alla fine i nodi vengono al pettine e questa smania di velocità e di perfettibilità, spacciata per magnifiche sorti e progressive internettiane, sta chiedendo il conto e i primi a pagarlo sono gli studenti più giovani.

L’equivalenza tra il saper leggere e il saper scrivere era chiara a me ma molto complicata da riferire a un teen di oggi. Perché se leggere significa voler capire quel che l’altro intende dire, scrivere significa esprimersi. Due processi che oggi sono derubricati da una finta comunicazione. Stile frasi da chica mala, appunto. E si sappia tutti che non si finisce mai di imparare, ma davvero.

Quella morte, annunciata, temuta ma non evitata, è arrivata: quella della cultura dovuta all’incapacità di leggere. Che è la prima vera e unica fatica che è richiesta prima allo studente e poi al cittadino.

Se lo storico e filologo Luciano Canfora fa un’analisi spietata e giusta della situazione critica in cui versa la capacità di approfondire, perché di questo si tratta quando si parla di leggere, e ritrae il vulnus a tutti i livelli (dalla scuola al mondo dei concorsi passando attraverso il lavoro), è anche vero che c’è un passaggio precedente che non va sottovalutato e che riguarda il saper leggere, ovvero quell’attitudine faticosa e dolorosa che richiede tempo, sforzo, immobilismo e concentrazione.

Ostinata, ritento la strada maestra.

Saper leggere è come saper guidare.

Cioè?, mi aveva guardato uno dei due con gli occhioni sgranati.

Non basta portare la macchina, devi stare vigile, controllare, guardare con attenzione.

E’ una guerra?

Diciamo che non puoi distrarti.

Chiamo in causa il mondo della scuola, ma come sparring partner e non come imputato.

Controllo da sempre i volumi che le scuole dei miei figli adottano, li spulcio quando loro sono fuori dalle loro stanze-bunker, leggo attentamente l’indice, indago tra le pagine colme di box dai titoli più disparati, perlustro nei sottoparagrafi mirati alla comprensione, e alla fine mi perdo, tanto da alzare gli occhi dalle pagine, guardare avanti e dirmi: ok, ricominciamo; dov’è il testo che ha scritto l’autore? Dov’è la sua opera? Persa, nei rigagnoli delle riflessioni, dei commenti, degli aiuti a decodificare e per nulla concessa attraverso la fruizione di quello che è stato il vero lavoro dell’autore, ovvero la sua parola, il suo scritto.

Ecco dove entra in scena la scuola, la sua impostazione. Non si leggono gli autori, si legge la sintesi che qualcuno ha deciso di raccontarci del loro pensiero e del loro stile. L’obiettivo è sempre uno: semplificarsi la vita, quello stesso processo che Canfora individua nella dinamica dei concorsi a quiz, più facili da mettere in piedi e da correggere che non facendo scrivere ed esprimere i candidati. Peccato però che la semplificazione è un processo complicato, mentre quello che ci portiamo a casa è la banalizzazione, figlia della fretta, che non è mai sinonimo di velocità.

A posteriori ringrazio gli insegnanti che ho avuto per l’amore che mi hanno trasferito per la lettura, che ha accorciato quei lunghi pomeriggi estivi in cui l’afa torrida delle ore calde era alleviata dalle pagine della Capanna dello zio Tom, dai Ragazzi della via Pal, il Giro dei Mondo in Ottanta giorni e quelle Piccole donne che mi hanno indicato una strada che anni dopo mi avrebbe portato a Simone de Beauvoir, e poi a Colette e via dicendo… La lettura d’estate, che a suo modo rinfrescava, credo sia un ricordo condiviso di una generazione che tenendo sulle gambe piegate il dorso di un libro da sfogliare ha gettato le basi del suo essere un samurai.

Concentrarsi, ecco che cosa significa leggere. Rallentare, entrare dentro alla testa di un autore, capire che cosa sta dicendo e valutarlo apprezzandone, o meno, il modo in cui lo dice, ovvero lo stile. Concentrazione è la parola chiave. Solo acquisendo questo passaggio si potrà pensare di porsi di fronte a un testo d’esame, a quello di un concorso e comprendere a fondo che cosa è richiesto. E solo dopo arrivare a quello successivo: saper scrivere.

Ma anche questo non è un processo dalla gestazione regalata, perché scrivere è faticoso quanto leggere perché chi scrive è solo, o perlomeno deve isolarsi. Non può esserci spazio per il beep delle notifiche, per i social che chiedono like, per le pagine web che ti ricordano di avere amici che neanche conosci e per la smania di postare la propria vita storia dopo storia. Chi scrive accetta per un lasso di tempo che solo lui conosce di uscire dal mondo di tutti per introdursi in quello della mente, e chiudersi la porta alle spalle. Per farlo ci vuole forza, una forza che non si potrà mai avere se prima non si è imparato a leggere.

Professori, facciamo un patto di collaborazione: fate i ragazzi grandi e questa estate date loro romanzi da leggere. Ma non per forza educativi. Romanzi, quelli che volete voi, ma romanzi. Altrimenti loro che dovranno sbrigarsi, e correre, e postare, e cliccare, e linkare, alla fine loro a settembre vi saluteranno al rientro dalle vacanze con una frase da chica mala. E alla fine per non sembrare maleducati e per essere capiti, l’unica chance che avrete sarà anche per voi rispondere con una frase da chica mala.

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